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Trama

In un futuro imprecisato, visionare i ricordi di un caro estinto non è più un problema. Attraverso il progetto Rememory, sostenuto dalla Eye Tech, e grazie all’avanzato programma Zoe, il quale prevede l’impianto di un microchip che si sviluppa di pari passo con il sistema nervoso (già prima della nascita, un individuo su venti ne è provvisto), è possibile, quando una persona decede, selezionare le sue esperienze visive e concentrarle in un normale supporto.

Alan Hakman, solitario e tormentato da un trauma infantile (un suo coetaneo precipitò in un cantiere dinanzi ai suoi occhi), di mestiere fa appunto il montatore, cioè colui che, strettamente vincolato da segreto professionale, si prende la responsabilità, una volta ricevuto un incarico, di scegliere e assemblare porzioni di vissuto di perfetti sconosciuti, se necessario addormentando la propria coscienza.

Appena consegnato il difficile caso Monroe, Alan, che esce ogni tanto con la non meno inquieta libraia Delila (il suo fidanzato è morto di recente), deve occuparsi delle scottanti rimembranze di Charles Bannister, capo della Eye Tech defunto ufficialmente per infarto.

In quella, lo avvicina un poco raccomandabile ex collega, il reietto Fletcher.

Recensione

In un panorama cinematografico sempre più affollato di prodotti incentrati sul tema dell’amnesia (da La finestra di fronte a Novo, da Old Boy a La leggenda di Al John e Jack, dai Men in Black a The Forgotten, passando per Alla ricerca di Nemo e 50 volte il primo bacio; ma l’elenco potrebbe allungarsi a dismisura), il lavoro del giovane Omar Naïm, distintosi in opere minori da direttore della fotografia (e le disagevoli atmosfere costruite dall’esperto Fujimoto sono là a sottolinearlo), possiede una sua “falsa” originalità.

Falsa perché è senza dubbio debitore di titoli tipo Memento (2000) di Christopher Nolan (un altro che, oltretutto, ha intuito le latenti potenzialità noir di Robin Williams), vedi il tatuaggio in funzione di spia, o Paycheck (2003), riuscendo, in tal caso, dove il film di Woo fallisce, vale a dire nella precisione della sceneggiatura (argomento, quello della distrazione e della sbrigatività degli script, di cui i fan del maestro di Hong Kong spesso tacciono) e nella rappresentazione mnemonica in soggettiva (le immagini sono filtrate dagli occhi della persona, non dall’obbiettivo, errore commesso pure all’inverso da molti registi quando propongono sequenze già bell’e montate provenienti da un circuito chiuso, si pensi all’episodio dell’elicottero ne L’implacabile – The Running Man, 1987, di Paul Michael Glaser).

Possiamo poi citare le rimembranze inoculate di Specchio della memoria (1996) di John Dahl, o i residui mentali su supporto digitale di Strange Days (1995) di Kathryn Bigelow.

Ma il riferimento più interessante riguarda sicuramente L’ultima eclissi (1995) di Taylor Hackford, il cui incipit, attraverso una selezione di scene voluta dall’autore, presenta al pubblico una morte in forma di omicidio.

Solo più tardi i nodi sono sciolti, con un flashback stavolta integrato di specifiche parti tolte le quali perfino a noi l’arcigna Dolores Claiborne (Kathy Bates) appariva rea.

Anche in The Final Cut il passato di Alan è ingannevole; però sono i sensi di colpa che hanno artefatto il suo ricordo, cosicché ciò che lo spettatore inconsapevole vede all’inizio è frutto di una memoria selettiva, subdola (la narrazione è costellata di rimandi a questa caratteristica, con esperienze riconoscibili da chiunque), capace di assolvere o, nella fattispecie, di tormentare un individuo (l’Hitchcock di Io ti salverò insegna).

In pratica, realtà mista a involontaria fantasia. Soltanto nel prefinale, tramite un pericoloso procedimento (entrare nella propria psiche è quanto di più destabilizzante si possa concepire, e qui ci si sovviene di Essere John Malkovich), il protagonista (ri)scopre i fatti: l’occasionale compagno di giochi infantili non era mai stato incitato da lui al salto, non c’era stato nessun terribile attimo di esitazione nel tentare di salvarlo dal precipizio (desiderare intimamente di fermarsi è un diverso paio di maniche), dopo la caduta non c’era sangue per terra.

Eppure il lungometraggio di Naïm trae da tutte le associazioni di idee, le assonanze, le somiglianze una linfa autonoma, prendendo le distanze dai tantissimi sguardi sull’avvenire che si limitano ad illustrarci le possibili frontiere del degrado umano.

Certo, il ruolo di Alan, diligente impiegato di una ditta marcia e ambigua fin nel logo (la seconda “e” di Eye Tech è rovesciata), votato per professione a smaltire vite intere e sovente a confezionare agiografie su cd-rom per parenti facoltosi (è la ricchezza che permette gli sfaceli morali) di autentici delinquenti, fidanzato con l’ignara Delila grazie ad un ulteriore raggiro, per quanto privo di cattiveria (sta “sintetizzando” l’esistenza del precedente boy-friend di lei), è accostabile al compito di un avvocato difensore con pochi scrupoli, magari un leguleio di domani, la cui coscienza, però, unita alle antiche inquietudini, vuole essere risvegliata, in nome di una sensibilità naturale e quasi artistica (poetica la sequenza a ritroso del passaggio terreno di un ottantenne, il che indirettamente ci suggerisce quanto vicino/lontano sia il futuro raccontato nel plot).

In mezzo a cotanta cupezza (nella quale non sfigura neppure l’unica battuta del “solito” Williams alla libraia Sorvino: “I volumi sul suicidio sono nella sezione ‘Fai-da-te’?”), è per l’appunto la questione etica ad emergere, sciupando un po’ il finale e appellandosi a un machiavellismo imparentato con quello di Extreme Measures – Soluzioni estreme (1996) di Michael Apted: chi rimane (qui è il discutibile Fletcher) s’impegna ad utilizzare quanto già fatto, finanche illegalmente, per migliorare il mondo.

È più proficuo, tuttavia, ritenere altre mostruosità sciorinate precedentemente dalla pellicola, meritevole a dispetto di qualche accettabile difetto ma avviata purtroppo a passare inosservata, come i momenti di intimità dei trapassati destinati ad essere guardati da perfetti sconosciuti, in inquadrature con tanto di data-e-orario/souvenir degne di qualsiasi videocamera.

Max Marmotta