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Recensione

Un tempo Randy “The Ram” Robinson era qualcuno nel wrestling, cruenta e spettacolare forma di lotta quasi senza regole, la cui raccapricciante cattiveria è frutto di una preparazione coreografica perlopiù concordata in precedenza.

Un divo del ring che spopolava negli anni ’80: lo si capisce dal calore che gli tributa il pubblico ogniqualvolta accetti di combattere in match di terz’ordine o in autentici revivals per i nostalgici, ma anche dal rispetto con il quale lo trattano gli avversari, di solito più giovani.

Una vicenda, perfino banale nella sua semplicità (il regista Aronofsky ci ha abituato ad altre sottigliezze, ma gestisce meravigliosamente cinepresa e retorica), di smarrimento, di caduta e di risalita (definitiva?) che sembra riguardare da vicino il protagonista di questo mélo sportivo, quel Mickey Rourke un tempo divo maledetto, consumatosi a furia di boxe, alcol, droga, percosse (alla moglie) e oblio.

Dopo un’accurata serie di ruoli secondari, muscolari (con Van Damme o Stallone) o più raffinati (per Coppola, Rodriguez e l’amico Penn, che gli ha soffiato l’Oscar con la bella – ma di certo meno impegnativa fisicamente – interpretazione di Milk), il nostro, a 55 anni (all’epoca delle riprese), il volto tumefatto, tenta di rimontare la china esistenziale e professionale tramite un personaggio perdente, indebitato, tuffato in un ambiente squallido eppure gentile, testardo, addirittura diligente nel prendersi cura di un corpo che rischia di non rispondere più alle sollecitazioni da doping.

Sperare, per lui, è l’unica: che una matura spogliarellista non meno votata al ridicolo di lui (ma la Tomei è ancora notevolissima) lo gratifichi della sua attenzione, che la figlia gli si riavvicini, che gli organizzatori lo paghino, che il cuore regga.

Fino ai titoli di coda, con l’amara e sincera ballata di Springsteen.

Max Marmotta