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Trama

All’inferno Sua Profondità è assolutamente contrariato dall’idea dell’ennesima Natività. Così invia sulla Terra, precisamente a Napoli, gli sprovveduti diavoli Scarapino, Farfaricchio e Astarotte perché colgano, attraverso la cattiveria umana, un’occasione che sventi il Natale.

I tre s’imbattono in Ciro, un bambino di nove anni che teme l’arrivo del fratello Franceschino, il quale nascerà proprio la notte del 25: sarà la fine dell’attenzione nei suoi confronti? Il padre Peppino è intento ad addobbare il grande presepe di casa insieme al cognato John, tecnico americano e padre della tenera piccola Sara, mentre le loro rispettive mogli, le sorelle Mariu’ e Rita, si occupano della cucina.

Malgrado i consigli di nonna Adele e l’affetto del gatto Baffo, Rocco è triste; la persona ideale per lo scopo, pensa il trio di demoni, che infatti lo tenta in sogno: se il pargolo pronuncerà la parola magica “opopomoz”, entrerà nella finta Galilea allestita dal genitore e potrà fermare Giuseppe e Maria, impedendo in questo modo pure a Franceschino di venire al mondo.

Recensione

Una chiacchierata tra Enzo D’Alò e Vittorio Cecchi Gori (!) ha dato luogo al soggetto, scritto dal regista con Umberto Marino (avevano collaborato per il precedente Momo alla conquista del tempo); quindi, si è passati alla sceneggiatura, redatta ancora dall’autore con Furio Scarpelli e suo figlio Giacomo, con l’apporto, per i dialoghi, di Marco Presta e Antonello Dose, mattatori della trasmissione radiofonica “Il ruggito del coniglio”.

Se si aggiungono le musiche composte e cantate da Pino Daniele, che lascia spazio a Gegè Telesforo e ai Neri per Caso per il brano “Opopomoz Blues”, e le voci di Orlando, Turturro (perfetto!), Salemme, Barra e dell’inedito trio Lionello-Accolla-Volo, si capisce che difficilmente questo cartoon natalizio, realizzato anche grazie alla professionalità dei disegnatori Walter Cavazzuti e Michel Fuzellier, poteva sbagliare bersaglio.

Tratti e movimenti dei personaggi sono di qualità, e persino l’ambientazione napoletana (con tanto di accento all’interno del presepe) non si rivela un simbolo di provincialismo, bensì un segno distintivo; del resto, malvagità e invidia sono sentimenti universali.

D’Alò (l’“apparizione” di Pinocchio è forse una sorta di promo di una delle sue prossime opere?), a parte qualche dettaglio da smussare, migliora ad ogni lavoro, dosando con personalità bontà d’animo e ritmo e rigenerando lo stile animato nostrano, per troppi anni rappresentato dalla bravura del solo Bruno Bozzetto.

Basti pensare al maestoso albero infernale o ai tre diavoletti in fondo non cattivi, soltanto desiderosi di divertirsi.

Max Marmotta