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Recensione

La saga di Harry Potter, ormai al penultimo capitolo (l’ultimo, I doni della morte, sarà realizzato in due parti – per motivi impunemente commerciali – distribuite nel 2010 e nel 2011), scorre ormai su binari tranquilli, addirittura convenzionali, se non fosse per il solito paio di sequenze genuinamente spettacolari.

Tanto per essere chiari, il livello continua a essere medio-alto: ai trucchi dei sempre meno infantili aspiranti maghi di Hogwarts corrispondono a volte degli insegnamenti morali di non poco conto; c’è una sapiente alternanza tra una dimensione fantastico-avventurosa (la ricerca della verità sulle origini del temibile Voldemort) ed una giocosa (le piccole schermaglie sentimentali fra i giovani protagonisti), che poi è quella in cui il pubblico si riconosce; ciascun personaggio gode della sua identificabilità, a prescindere da quanto appaia; ogni nuovo carattere (nella fattispecie, il simpatico professor Lumacorno del mai abbastanza apprezzato Jim Broadbent, convocato con insistenza da Albus Silente poiché custode di un importante segreto) veicola con intelligenza accattivanti ramificazioni della trama.

Ci sono concrete modifiche rispetto alla pagina scritta, certo, ma sono “tradimenti” accettabili (più che nel precedente L’ordine della Fenice, dove era possibile riscontrare pure delle forti incoerenze) e la narrazione scorre fluida per almeno 90 minuti (dopo regge un po’ meno).

Ciò che dispiace, sebbene si tratti di un aspetto secondario, è la rinuncia al ricambio dietro la cinepresa.

Proveniente dal corto e dalla tv, il regista David Yates ha esordito al cinema con Harry Potter, e si avvia a firmare la metà dei lungometraggi tratti dai libri della Rowling.

È abile, però gli manca quel minimo di personalità immesso dai suoi maggiormente navigati predecessori.

Max Marmotta