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Recensione

Chi non sopporta Ascanio Celestini e la sua idea di teatro parlato, anzi monologato (ma anche chi semplicemente non lo conosce), probabilmente detesterà questo suo primo film di finzione che segue di quasi tre anni l’inchiesta filmata Parole sante, dedicata agli operatori di call center, suo grande interesse.

Per la verità, a parte i normali errori di dosaggio (un paio di scene troppo lunghe e dai dialoghi eccessivamente surreali) e le pecche di ritmo propri di un esordio, La pecora nera, incentrato su un altro argomento caro al suo autore (che ha tratto la sceneggiatura, scritta con Ugo Chiti e Wilma Labate, da un suo documentato spettacolo già divenuto libro), ovvero il disagio mentale, si segnala per la capacità di sperimentare applicando, senza mai tradirla, una cifra stilistica già collaudata, di provare a risalire alle origini del problema avvalendosi di un rischioso piglio poetico (quanto è – ereditariamente – malato il protagonista, interpretato dallo stesso Celestini, e quanto, per comodità, hanno voluto che lo fosse il suo cinico parentado, i compagni di scuola, la sua insegnante?), di dimostrare che l’abbandono può scatenare i peggiori mostri.

Molto apprezzata all’ultimo festival di Venezia – dove era stata presentata in concorso – pure per la svolta narrativa finale (non è nuova, però si concilia bene con il resto), l’opera si avvale inoltre di eccellenti collaborazioni: fra gli attori fanno capolino Nicola Rignanese, già spalla di Albanese, il cantante degli Avion Travel Peppe Servillo (fratello di Toni) e il figlio d’arte (nonché assistente sul set) Pier Giorgio Bellocchio; Carlo Macchitella si è occupato della produzione insieme al regista Giorgio Magliulo e all’attrice Alessandra Acciai; Daniele Ciprì ha firmato una fotografia attentissima a connotare significativamente i diversi (ma pochi) ambienti.

Max Marmotta