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Recensione

Il cinema inglese ci ha abituato a vicende amorose sincopate, magari dilazionate nei decenni, che celano risvolti imprevedibili e non necessariamente virtuosi.

Questo film del lanciatissimo regista indiano Batra, di poco precedente a Le nostre anime di notte (con il magico tandem Fonda-Redford, passato da Venezia a Netflix), rientra nella cerchia, non sorprende ma nemmeno annoia, mantenendo abbastanza integra la sua letterarietà (è tratto da Il senso di una fine di Julian Barnes).

Poiché la trama gira intorno allo scossone ricevuto dall’anziano e scontroso Tony (il solido Broadbent), che riceve una lettera postuma della (seducente) madre di una sua antica fiamma a proposito dello scottante diario di un suo caro amico defunto tanti anni addietro (e fidanzatosi proprio con la ragazza per cui il nostro spasimava), il tema diventa presto (e preminentemente) la fallacia della memoria umana, la sua selettività all’occorrenza largamente autoassolutoria.

Un meccanismo peraltro rivelatore della vera natura di un individuo. Attraverso il classico espediente dell’andirivieni temporale (quand’è così, arduo parlare di flashback), lo script di Nick Payne centellina alquanto sapientemente le informazioni.

E, pur sfiorando la digressione, gestisce bene i numerosi personaggi. Per l’appunto il cast, a parte la sorniona Rampling (resa in gioventù dalla luminosa Freya Mavor), è zeppo di volti riconoscibili, da Matthew Goode  a James Wilby.

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Max Marmotta