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Recensione

Storia del primo pentito di Cosa Nostra (non un vero affiliato, bensì uno sfortunato circondato da furfanti), Leonardo Vitale, che negli anni ’70 con le sue rivelazioni ai giudici assestò un pesante colpo alla criminalità organizzata siciliana, mettendo in pericolo i suoi cari e, ufficiosamente “interdetto” dagli accusati, sacrificando per davvero la propria salute mentale ad una causa alla quale fu associato praticamente per caso.

Due osservazioni (negative) da anteporre alle lodi: uno smaccato stile tv, specie in alcuni dialoghi, che prevale in gran parte, tanto più inspiegabile quanto acclarate sono le capacità di messinscena (cinematografica) del regista napoletano Incerti (Il verificatore, Prima del tramonto, La vita come viene), e un conseguente uso ozioso del dialetto (invece di storpiarlo, tanto valeva concentrarsi sugli accenti).

Per il resto, oltre al merito di rammentare con una certa asciuttezza una vicenda importantissima per la giustizia nazionale e continuare a parlare, con toni adeguati, di malavita locale in un momento in cui l’argomento per i media è colpevolmente “fuori moda” (intanto i boss si riorganizzano), è doveroso segnalare lo splendido titolo, la durezza (per ciò che si è detto sopra, inattesa) di alcuni brani e il mestiere degli attori, in particolare il tormentato David Coco (già Pisciotta per Segreti di Stato).

Fra l’altro, il film spiega come a causa degli eventi l’inerte e “tradizionale” mutazione in suo zio (sempre bravo Sperandeo, ma le sue battute sul copione sono da dimenticare) alla quale Leo era silenziosamente condannato (perfino la barba post-reclusione diventa una testimonianza/sovrapposizione da eliminare) s’interrompa, s’inceppi; forse è quella la chiave, boicottare l’ereditarietà del comportamento mafioso alla radice.

Non tutti ci rimetterebbero il senno al pari di Vitale.

Max Marmotta