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Trama

A Los Angeles viene ritrovato il corpo senza vita di un giovane afroamericano. Ripercorrendo le ore precedenti all’omicidio, si assiste ad alcune vicende incrociate, tutte legate dal filo della convivenza difficile, che sfocia spesso in diffidenza e quindi in razzismo, all’interno di un universo cosmopolita.

Il detective Graham Waters alterna gli screzi con la collega/amante di origine messicana Ria a quelli con l’anziana madre, che gli raccomanda di continuo di cercare il fratello sbandato, proprio mentre sta occupandosi di una delicatissima indagine su un conflitto a fuoco, in cui è coinvolto un poliziotto, che i piani alti vorrebbero insabbiare per questioni di immagine.

Della faccenda deve rispondere pure il procuratore distrettuale Rick Cabot, sotto elezioni e innervosito dalla moglie Jean, ancora più acre da quando ha subito una rapina da parte dei ladruncoli neri Peter e Anthony, quest’ultimo disgustato dai pregiudizi che lo circondano.

L’operaio latinoamericano Daniel, con figlioletta a carico, si scontra aspramente con il negoziante mediorientale Farhad, insoddisfatto della riparazione della porta del suo emporio.

Il regista televisivo di colore Cameron Thayer e la moglie Christine subiscono un abuso di potere da parte dell’agente Ryan, in apparenza sprezzante ma frustrato dalla malattia del padre, sotto gli occhi allibiti del suo nuovo compagno di pattuglia, l’idealista Tommy Hanson.

Recensione

Il cinema non si è mai dimenticato di un tema scottante e purtroppo, per via di coriacei istinti territoriali umani, costantemente presente nella nostra società come il razzismo.

Lo ha fatto evolvendosi nel linguaggio, passando dall’esplicita denuncia alla sottotraccia, giungendo per gradi al sussurro e alla tacita sottolineatura dell’ingiustamente dimenticato Complice la notte (1997) di Mike Figgis, dove gli incroci amorosi tra i protagonisti bianchi, neri, asiatici non davano spazio ad alcun brano di dialogo inerente le (supposte) diversità, o delle giustamente composite aule studentesche, per citare esempi recentissimi, di Giordana (Quando sei nato non puoi più nasconderti) e Benigni (La tigre e la neve), le cui opere, però, conducono verso lidi già più consoni a un discorso sull’immor(t)alità del pregiudizio (gli sbarchi dei clandestini e l’assurda guerra).

In tal senso Crash – Contatto fisico (sottotitolo inadatto ma necessario ad evitare la fuorviante omonimia con la pellicola di Cronenberg) è un lavoro démodé, per il suo modo diretto di affrontare il problema, un impatto per l’appunto devastante, in grado di creare danni immensi, qui a volte ottimisticamente lasciati allo stato embrionale (pure per non reiterare il solito adagio emozionale sull’innocenza che ci va sempre e comunque di mezzo).

Tuttavia, al di là di qualche passaggio più debole di sceneggiatura (scritta con Bobby Moresco dal regista Paul Haggis, lo stesso che ha egregiamente trasformato i racconti di F.X. Toole nello script di Million Dollar Baby, e scusate se è una credenziale da poco), atto quasi a ingentilire l’insieme o forse, è maggiormente opportuno pensarlo, a semplificarlo (la caduta dalle scale di Jean – una Bullock finalmente efficace e distante dai soliti canoni – permane però troppo gratuita nel contesto), questo film ci ricorda che un linguaggio narrativo meno anodino può raggiungere una platea più vasta, il che non è sicuramente un male, quindi è un espediente stilistico da non archiviare definitivamente.

Se poi, ed è il caso di Haggis, si riesce a padroneggiare adeguatamente una trama corale i cui caratteri sono collegati con arguzia, di quelle che fanno fregare le mani ad Altman o al giovane Anderson, le eventuali obiezioni cedono il passo alle lodi, moderate ma sincere.

In effetti, l’autore introduce il pubblico nella fibrillante vita losangelina ricordandogli dal principio che non è mai consigliabile abbassare la guardia, che il prossimo non si fa scrupoli a giudicarti apertamente per il tuo colore o per il tuo accento: qualche esempio è costituito dall’atteggiamento dell’armiere all’inizio, dalla stizza dei rapinatori nel quartiere perbene guardati con l’occhio storto già prima che impugnino le pistole, dai pregiudizi di Jean nei confronti dell’alacre ed educato Daniel o dall’ennesimo incidente che chiude il lungometraggio, quando la fin lì positiva Shaniqua aggredisce verbalmente i coreani che l’hanno tamponata.

Non è tanto importante che le attitudini dei personaggi siano prevalentemente buone o cattive (o perfino dubbiose, perché no?), quali azioni si accingano a compiere anche nei confronti dei propri simili (si pensi al cinese finito in ospedale) o se si redimano o incanagliscano, ciò che conta è l’ambiente, un calderone giocoforza condizionante, non foss’altro per ronzii e vocii che si è costretti ad udire dai vicini.

L’eroismo dell’agente Ryan (in quella che è, insieme al confronto tra il volenteroso Waters e il suo superiore Flanagan, la miglior sequenza) prescinde dal suo precedente vergognoso comportamento nei confronti di Christine, e costringerci ad accettarlo senza che lo sbirro in questione manifesti particolari pentimenti di circostanza è uno degli elementi più difficili da mandar giù, ma è il segno delle molte contraddittorie coesistenze sulle quali Crash prova a puntare il dito.

Soluzioni non ce ne sono; soltanto, lo accennavamo prima, le tragedie talvolta sono sfiorate e scongiurate per buona sorte o intervento divino, talaltra investono chi non vi è necessariamente predestinato.

Convivere con i paradossi è possibile, trarne insegnamento (se non si è già prudenti per indole, vedi la figlia di Farhad) è un dovere.

Max Marmotta