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Recensione

Un titolo che già contiene tutto. Jonathan Demme, che quando non si dedica al cinema di finzione (e di alta qualità) che l’ha reso famoso (Qualcosa di travolgente, Il silenzio degli innocenti, Philadelphia, The Manchurian Candidate) è in grado di sfornare pure ottimi documentari (il mitico Stop Making Sense sui Talking Heads, The Agronomist sull’eroico giornalista radiofonico haitiano Jean Dominique), compie, con perizia tecnica, curiosità straniera e compenetrazione d’artista, un’esplorazione nel sound di uno dei musicisti partenopei più versatili, in grado di dialogare con culture lontanissime dalla sua e di generare connubi armoniosi, senza mai trascurare le sue radici (alle quali viene opportunamente dedicato molto spazio).

Tra strumenti insoliti e volontà di creare una melodia universale che unifichi i popoli in uno scambio di ricchezze, assistiamo a esibizioni con cantanti e virtuosi come Daby Touré, Gerardo Núñez, Naseer Shamma, Luigi Lai, Amal Murkus, Ashraf Sharif Khan Poonchwala.

Inni alla pace, ricordi struggenti messi in note (vedi l’omaggio al reporter Vittorio Arrigoni, assassinato a Gaza nel 2011), malinconie familiari: ogni componente contribuisce a migliorare un percorso che è già poderoso.

Max Marmotta