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Recensione

13 nominations all’Oscar, per quel che valgono i premi, non sono una bazzecola (e le statuette per il trucco e gli effetti visivi qui spettavano di diritto); eppure, a questo Il curioso caso di Benjamin Button, tratto da un breve racconto di F. Scott Fitzgerald, nonostante una confezione invidiabile, di quelle che piacciono alle vaste platee, malgrado il respiro dell’epopea storica (viene in mente Forrest Gump, per quanto difetti dell’aura teneramente buffa di cui grondava il film di Zemeckis), manca il director touch, anzi, fuori dai denti, il Fincher touch.

Sì, perché dietro la macchina da presa c’è un autore famoso per Seven e per Fight Club (giusto per citare le precedenti esperienze con il protagonista della sua ultima fatica, un Pitt ineccepibile, tuttavia parecchio aiutato dal computer nelle sue mutazioni corporali dalla vecchiaia alla gioventù), ma indiscutibilmente in grado, di solito, di imprimere un marchio, un’orma, un’allure anche alle pellicole di minor successo, dai tumultuosi meandri di The Game alla difesa claustrofobica di Panic Room, fino alla caccia all’uomo calata nella quotidianità di vari e diversamente titolati indagatori in Zodiac.

Sicché, la singolare vicenda (dalle poche imperfezioni) dell’uomo che attraversa il secolo scorso nascendo decrepito (lo abbandonano davanti a un ricovero per anziani condotto dalla generosa Queenie) e, in sordina, decrescendo tra varie avventure e incontri bene o male costruttivi, innamorandosi (la seconda parte decelera pericolosamente) e andando incontro alle conseguenze che la sua inspiegabile natura gli ha imposto (il legame con l’orologio della stazione propone un motivo, ma rimangono, com’è giusto, i suggestivi interrogativi su fato e destino), rapisce, però forse non arriva a strabiliare.

Che poi era ciò che in cuor nostro speravamo.

Max Marmotta