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Recensione

Un indiano che studia in America (praticamente per un voto), Ashoke Ganguli, accetta, al pari della moglie Ashima, uno dei più classici matrimoni a tavolino, e tramuta la difficile – per motivi economici e culturali – permanenza all’estero della sua famiglia in un’esperienza d’amore: avrà due rampolli, e al primogenito darà (poco graditamente) nome Gogol, e non solo per passione letteraria.

Idea suggestiva, sebbene già ampiamente setacciata (ma pur sempre proposta in un’ottica particolare), quella di Mira Nair, da troppi anni indecisa tra un cinema genuinamente verista (Salaam, Bombay!), uno “da trasferta” ed esportabile (Mississippi Masala) e il compromesso tra Oriente e Occidente, che poi si traduce nell’intenzione manifesta di non spiacere a nessuno, a volte purtroppo tendente a un esotismo (garantito dal luogo delle sue origini) “sporcato” da una trama eccessivamente ammiccante agli spettatori filoamericani (Monsoon Wedding), categoria alla quale appartiene la sua ultima fatica.

Peccato che al doppio percorso di formazione (del volenteroso padre prima e del tormentato figlio poi, senza dimenticare di soffermarsi sugli sfumati personaggi femminili, Ashima in testa), peraltro ricco di spunti per niente banali, non corrisponda una dignitosa cura nei dialoghi o nel collegare gli avvenimenti: troppa fretta nelle decisioni, alcuni mutamenti repentini e ingiustificati d’opinione, senza contare l’eccessiva declinazione “turistica” di certe sequenze.

Inoltre, sarebbe stato parecchio interessante soffermarsi sull’influenza che il nome che ognuno si ritrova assegnato sin dalla nascita esercita nel corso di una vita.

Ma forse, a ben guardare, non era la sede più adatta, ed è opportuno accontentarsi del succo della storia: è l’unico modo per scacciare quell’ombra di delusione che aleggia sugli estimatori della regista.

Max Marmotta