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Recensione

Una volta il nome di Jim Sheridan era sinonimo di sana indignazione irlandese.

I suoi primi lavori (Il mio piede sinistro, Nel nome del padre, The Boxer, ma anche il dimenticato Il campo) erano perfetti spunti di dibattito.

Poi arrivò il lacrimevole (seppur non deprecabile) In America, e il nostro cominciò ad allontanarsi dal suo territorio.

L’inedito Get Rich or Die Tryin (incentrato sul binomio ghetto & rap), l’inessenziale remake Brothers, addirittura il thriller esoterico Dream House hanno contribuito a dissipare (o a mal indirizzare) la poetica rabbiosa dell’autore.

Perciò da questo nuovo lavoro – tratto da un romanzo di Sebastian Barry (sceneggiato dal regista con Johnny Ferguson) – che segna un “ritorno a casa” era lecito aspettarsi di più.

Peraltro il danno artistico appare serio.

Il percorso a ritroso (rivelato, tramite appunti furtivi, a uno psichiatra e a un’infermiera assai disponibili) di un’anziana accusata di aver ucciso il proprio bebè e perciò ricoverata da quarant’anni in manicomio (sposatasi con un aviatore e perseguitata, era sospettata di intendersela con un giovane sacerdote) non convince: è compresso, intorpidito e dotato di una svolta finale gestita con avventatezza.

Gli attori fanno ciò che possono, senza uscire dal seminato; Redgrave e Mara, in particolare, che impersonano la protagonista in due epoche diverse, in pratica paiono ricalcare le loro orme in – rispettivamente – Espiazione e Carol.

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Max Marmotta