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Recensione

Dopo l’inquietante Il clan (2015), ecco un’altra aberrante decostruzione dell’istituzione familiare a opera di Trapero.

Ed è difficile non collegare la solo apparente rispettabilità d’una comunità simbolicamente ristretta (come le oligarchie) con il lancinante ricordo dei soprusi perpetrati in Argentina durante la dittatura (1976-83).

Eugenia (Bejo, un ritorno alle origini sudamericane) vola da Parigi (dove un tempo – e per ben due volte – viveva con i suoi) a Buenos Aires per recarsi alla tenuta La Quietud.

Una “tranquillità” sbandierata dal titolo originale che non è che una facciata (da lasciarsi alle spalle) dietro la quale si cela il passato non irreprensibile dell’anziano Augusto (Tolcachir), colpito da ictus.

Benché sia questo il motivo del viaggio intrapreso dalla figlia, né lei né la sorella Mía (Gusmán), che pure al genitore è affezionata, e tantomeno la moglie Esmeralda (Borges), sembrano particolarmente preoccupate per la situazione, finché non emerge la natura delle loro numerose proprietà.

L’intercambiabilità quasi incestuosa delle giovani donne – non per nulla nate l’una in Europa, l’altra in America Latina, disugualmente amate e provate da promiscue storie di letto con Vincent (Ramírez), compagno ufficiale della maggiore, ed Esteban (Furriel), rampante erede dell’ex-principale del papà – e l’indiretto bisogno di una progenie “sana” sono i temi vincenti d’un film che non disdegna l’erotismo per sancirli.

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Max Marmotta