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Recensione

Per questo film, seconda sua collaborazione con Daniele Luchetti dopo Mio fratello è figlio unico, il bravissimo Elio Germano si è aggiudicato, com’è noto, un assai meritato premio per l’interpretazione (ex-æquo con il Javier Bardem di Biutiful) al recente festival di Cannes.

Il suo ruolo è quello di Claudio, operaio edile con due figli piccoli, il quale si scontra con un’insostenibile tragedia familiare e reagisce, con rischiosa ambizione, puntando a un subappalto (ottenuto in maniera poco limpida) che, a causa dei debiti contratti in corso di realizzazione, potrebbe dissanguarlo e mandare in rovina pure i suoi dipendenti.

Sordo ai consigli, distratto nei confronti di chi lo circonda e lo ama con generosità, destinato a rendere ulteriormente precarie delle condizioni di lavoro già proibitive (e le incurie sono anche sue), attraversa un’istruttiva bufera.

Il regista (che dirige ancora una volta sua moglie Stefania Montorsi e offre una bella occasione a Bova) e gli insuperabili cosceneggiatori Stefano Rulli e Sandro Petraglia da uno spunto semplice hanno concertato una sceneggiatura complessa, ricca di sfumature, di dettagli umani (perfino canaglieschi, ma con bonarietà quasi scorretta, vedi il vicino di casa spacciatore disabile di Zingaretti), di elementi – sicurezza nei cantieri, evasione fiscale, immigrazione disperata, più gli immancabili cenni sulla famiglia – riguardanti la stretta attualità.

Non importa che sembrino troppi, conta piuttosto la loro compresenza armoniosa, credibile nonostante la valenza simbolica e l’aura da compendio di guai nostrani che la vicenda assumerebbe se il timone non fosse saldamente assicurato in direzione delle emozioni e delle riflessioni.

Lo splendido finale indica al protagonista una via possibile per gestire il dolore. Per trasformare l’assenza in presenza.

Max Marmotta