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Trama

Dopo un’infanzia con l’amico e vicino italiano Martino Knockavelli, il gallese Tulse Luper diventa esploratore e a Moab, nel deserto dello Utah, dove sta effettuando alcune ricerche, viene incarcerato dallo sceriffo Tom Fender per un contrasto con la famiglia Hockmeister, d’origine tedesca, infastidita dall’indiscrezione del giovanotto, atto a spiare l’avvenente Passion.

È il 1934, da poco è stato scoperto l’uranio e lo spettro nazista incombe sull’Europa. Alcuni esperti ricostruiscono la vita e le esperienze di Luper attraverso le sue 92 valigie contenenti gli oggetti più disparati, dai profumi ai passaporti alle rane, e i suoi numerosi incontri/scontri cruciali: con la dattilografa Cissie Colpitts, con il militare Jan Palmerion… .

Recensione

Il cinema del regista/pittore/architetto britannico Peter Greenaway, sperimentatore convinto, si fa sempre più complesso e ambizioso.

Questa nuova opera, primo capitolo di una trilogia presentata a Cannes 2003 (mentre a Venezia si è già visto il terzo) che si propone come l’avvio di un progetto mastodontico che comprenderà pure libri, cd-rom, Internet e tv e coinvolgerà un mélange di attori noti, appare come la summa delle ossessioni dell’autore, che supera se stesso: geometrie, geografie, mappe, storia (in fondo, si tratta di una cavalcata del XX secolo), scrittura, collezioni, numerologia (ricorre il 92, numero dell’uranio), picture in picture, nudità, lingue, cinema (autocitazioni da Il ventre dell’architetto e Lo zoo di Venere, ma la struttura ricorda l’insostenibile e giovanile The Falls), teatro (Beckett e Brecht i più saccheggiati), letteratura (menzionato Kafka) si incrociano e si sovrappongono su un tetro sfondo di guerra.

L’intento è quello di provocare non tanto con i contenuti (ripetitivi e possibilmente irritanti), ma con immagini al limite del rivoluzionario, per risvegliare una platea assopita dalle troppe visioni omologate.

Impossibile da seguire in versione sottotitolata (come avranno fatto nei festival?), estremamente interessante per gli estimatori di Greenaway, probabilmente insopportabile per gli altri, che prenderanno come una minaccia il “to be continued” collocato alla fine.

In effetti, Il cuoco, il ladro, sua moglie e l’amante, L’ultima tempesta o The Baby of Mâcon esibivano un intellettualismo meno freddo.

JJ Feild (Tulse) era ne L’ultimo bicchiere.

Max Marmotta