Video & Photo

1 videos

Recensione

All’insegna del virtuoso rigore che lo contraddistingue dai tempi de Il ritorno (Leone d’Oro a Venezia nel 2003), il pluridecorato Zvyagintsev, accantonati i diverbi edilizi di Leviathan (2014), disseziona magistralmente un altro piccolo nucleo familiare già lacerato.

Al centro della vicenda due coniugi (i nervosi e dolenti Spivak e Rozin) in procinto di separarsi rabbiosamente, già coinvolti in nuove (piatte?) relazioni e chiaramente incuranti delle sorti del loro unico e silenziosamente consapevole figliolo (Novikov).

Tra un litigio e un dispetto, appare chiaro che il dodicenne finirà presto in un collegio; ma il ragazzino sparisce praticamente senza lasciare tracce, mettendo gli egoisti genitori di fronte alla loro patologica anaffettività.

Con spietata chiarezza il regista (che con i suoi ultimi due lavori si è aggiudicato a Cannes rispettivamente il Premio per la Sceneggiatura e quello della Giuria) ci parla di una società – non esclusivamente russa – ormai incapace di costruire un futuro, di pensare, se non alla felicità, alla formazione della propria progenie, venuta al mondo per inerzia, senza un progetto, incoscientemente.

Non importa l’esito, volutamente polimorfo, della ricerca (avviata, secondo tempi burocratici, da un freddo inquirente): bisogna confrontarsi con la realtà, capire quanto ci sia di recuperabile.

L’immagine di chiusura, segno di fugace distrazione da un’esistenza schiacciante, è struggente.

.

Max Marmotta