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Trama

Chicago, estate 1976. Il piccolo Pete O’Malley, figlio del severo e cocciuto pompiere d’origine irlandese Joe e della casalinga Margaret, genitori di altri sette tra ragazzi e bambini (fra loro, il vivace Seamus e l’aspirante universitario Patrick), in seguito ai moniti di un’insegnante suora, ha deciso di perseguire un obiettivo durante le vacanze: convertire almeno un ebreo al cristianesimo, certo che ciò gli garantirà il Paradiso.

Dopo avere imbandito un mini-chiosco di limonate (gratis) davanti alla sinagoga per invogliare i fedeli a cambiare idea, con il benestare del comprensivo rabbino Jacobsen, lega proprio con il figlioletto leucemico di quest’ultimo, Danny, che diventa così il “prescelto”.

Il frugoletto, al quale piace la proposta di Pete (che si è anche consultato con il parroco Kelly), dovrà affrontare una specie di decathlon per sancire il passaggio da una religione all’altra.

Intanto, si è stabilita una specie di amicizia anche tra i loro padri, poiché Joe ha salvato Danny dalle fiamme di un incendio.

Recensione

Chissà se qualcuno si ricorda di Amici per sempre, un piccolo film del 1995, diretto da Peter Horton, sull’evolversi della solidarietà tra due ragazzini, uno dei quali malato.

Gli somiglia molto quest’opera prima scritta e diretta da Pete Jones (sarà un caso che il protagonista si chiami come lui?), vincitore del concorso per sceneggiature indetto dalla Greenlight di Matt Damon, Ben Affleck e Chris Moore.

Evitando tentazioni manichee e puntando al concreto, il regista ci racconta il cheto confronto tra le due principali religioni, lasciando un po’ più in ombra l’ebraismo nonostante l’enorme apertura mentale del personaggio di Jacobsen.

Il suo interprete, il simpatico Kevin Pollak, non si scosta da una recitazione manierata, e lo stesso vale per Aidan Quinn (Joe) e Brian Dennehy (padre Kelly).

Ciononostante, la pellicola ha verso, tatto e delicatezza, qualità che le garantiscono l’indulgenza per quanto riguarda la ricerca leggermente calcolata della lacrima e qualche fase che la renderebbe più adatta all’home video.

Sottotitolo italiano inutile: non è una vicenda narrata in flashback, e neppure una storia vera; anche il manifesto è frettoloso, con una foto di set che non c’entra nulla.

Max Marmotta