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Recensione

Che ci aspettavamo, un altro 36? Gli apici del precedente film dell’accoppiata formata dal regista e, non per un caso, ex-poliziotto Marchal (il quale continua a prendere spunto da storie vere) e il superbo attore Auteuil, oltralpe probabilmente il migliore della sua generazione (comunque, non l’unico del nuovo cast a replicare la collaborazione), erano irraggiungibili, quindi perché mai imbastire confronti? D’altronde, si tratta in entrambi i casi di polizieschi, ma se quello batteva il versante noir, classico e torbido, questo si scopre più incline al thriller drammatico (atmosfere da Seven che si fermano incredibilmente dalle parti di Hana-bi).

La trama si incentra sulla disperazione di Schneider, valente sbirro marsigliese che ne ha viste troppe (un destino forse segnato in gioventù), ormai preda dell’alcool a causa di una tragedia familiare.

Sebbene estromesso dalle indagini per il suo stato pietoso, s’impunta nel voler dipanare la matassa di una serie di delitti della quale ritiene di aver individuato il bandolo.

Intanto, indipendentemente (o almeno così pare), si profila la concreta possibilità di scarcerazione di un anziano pluriomicida apparentemente redento, malgrado la manifesta contrarietà della figlia dell’ultima coppia di sue vittime.

Il film ci gira intorno, ma la relazione tra le due vicende salta fuori al momento giusto, rendendo il rush finale assai più avvincente – e raggelante – di tutto il resto, per certi aspetti ordinario.

È senza dubbio un effetto desiderato, che peraltro esalta alcuni meccanismi nascosti della sceneggiatura, sempre a firma di Marchal, e induce a perdonare le staticità precedenti, ma ciò non toglie che l’aggiunta di qualche orpello e la sintesi di qualche scena sarebbero state salutari.

Max Marmotta