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Recensione

Al regista Jean-Jacques Annaud piacciono le sfide. Che si sia trattato di ambientazioni preistoriche (La guerra del fuoco), di ardite trasposizioni letterarie (Il nome della rosa, L’amante, Il principe del deserto) o biografiche (Sette anni in Tibet), di vicende belliche (Il nemico alle porte) o animalesche (L’orso, Due fratelli e questa sua più recente fatica), non si è mai tirato indietro, accettando implicitamente il rischio di tonfi a volte sonori.

Lasciando sullo sfondo la situazione politica (la Rivoluzione Culturale di fine anni ’60) e ispirandosi al best seller orientale Wolf Totem di Rong Jiang (altra autobiografia), ci racconta di due studenti cinesi (Feng e Dou) che si allontanano dalla turbolenta patria al nobile scopo di acculturare i figli dei pastori e dei contadini della steppa mongola in cambio di vitto e alloggio biennale.

L’esperienza si trasforma in affascinante full immersion nell’arida natura del luogo, fra credenze primitive, crudeli nonché contraddittorie.

Per dire: qui i lupi sono venerati, ma anche depredati di cibo e cuccioli (raccomandati alla divinità locale prima di essere lanciati nel vuoto) per limitare le proliferazioni.

Ovvio che le bestie, durante un inverno particolarmente rigido, tendano a diventare feroci. Uno dei protagonisti salva un lupetto e in segreto lo alleva; gesto che avrà ripercussioni. Girato nel massimo rispetto dei quadrupedi (malgrado la trama), il film, spesso ingenuo, è dotato di sequenze ad alta spettacolarità.

Una per tutte: il tragico assalto alla mandria di cavalli.

Max Marmotta