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Recensione

Le aspettative erano inevitabilmente alte. Anzitutto perché, dopo aver recitato separatamente (e altrimenti non si poteva) nel celebrato Il padrino parte II (1974) di Francis Ford Coppola e essersi sfiorati un paio di volte nell’ottimo Heat – La sfida (1995) di Michael Mann, Pacino e De Niro, icone del miglior cinema di svolta degli anni ’70, condividono il set per l’intera durata del film, nel quale interpretano due scafatissimi agenti alle prese con una catena di omicidi di criminali acclarati o imboscati, a firma di un misterioso “poeta” che lascia filastrocche in rima su ogni luogo del delitto.

Poi perché, anche a volersi distrarre, il martellante battage pubblicitario, con tanto di strombazzata conferenza stampa a Roma, avrebbe fatto venire l’acquolina in bocca perfino al più scettico dei commentatori.

Infine perché ultimamente si sente davvero il bisogno di un thriller a stelle e strisce che tenga fino alla fine, e qui le credenziali, tutto sommato, c’erano.

Dove sta il problema, dunque? Non tanto nella trama, che con un solo, sapido (sebbene non innovativo) accorgimento, crea un colpo di scena finale magari annunciato, ma sostanzialmente in tono.

Il guaio, ovvero l’elemento a priori preoccupante, è la regia di Jon Avnet, il quale, dopo il simpatico esordio di Pomodori verdi fritti diresse i dignitosi The War (mai arrivato nelle sale italiane) e Qualcosa di personale (già meno riuscito), scivolò sul ridicolo L’angolo rosso per poi assentarsi dal cinema una decina d’anni (vi è tornato giusto qualche mese fa con 88 Minutes, sempre con Pacino, ancora inedito da noi; scommettiamo che ce lo propongono a fine stagione?).

Non c’è reale mordente, gli interpreti da un lato vogliono esibire la loro anzianità, dall’altro, poco irreggimentati, si riducono a fare le facce.

Sperduti anche gli altri, Dennehy in testa.

Max Marmotta