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Recensione

Cosceneggiatore di Urban Legend Final Cut, soggettista per Wenders nel suo La terra dell’abbondanza, Scott Derrickson cavalca l’onda del revival horror, sfruttando l’attualità del satanismo.

Certo sulla possessione diabolica e sull’esorcismo è difficile propinare qualcosa di più originale (e popolare) de L’esorcista di Friedkin.

Tuttavia, The Exorcism of Emily Rose si distingue da altri prodotti di genere, non tanto per l’ispirazione colta da un fatto realmente accaduto, quanto per la struttura della storia, caratterizzata da due anime, una razionale e l’altra irrazionale, che lascia pure scorgere un messaggio spirituale mille volte più efficace di quello di Stigmate.

La vicenda, originariamente ambientata in Germania negli anni ’70, viene trasferita negli Stati Uniti al giorno d’oggi.

Emily Rose (Jennifer Carpenter) è una studentessa universitaria costretta, da strani problemi di salute, a tornare nella sua cittadina.

Secondo padre Moore (Tom Wilkinson), confessore e confidente della ragazza, Emily deve essere sottoposta ad esorcismo in quanto invasa da un potente demone.

L’iniziativa del sacerdote si conclude però con la morte della giovane. Ne nasce un processo dove il prelato è difeso dall’atea Erin Bruner (Laura Linney), mentre l’accusa è sostenuta dal cristiano metodista Ethan Thomas (Campbell Scott).

E partendo proprio da questo paradosso, il regista decide di connotare la pellicola come un avvincente dramma giudiziario, dove a scontrarsi sono legge e fede, esibendo a turno i propri periti e motivazioni personali.

Decisamente stantii invece i momenti horror: i numerosi flashback su Emily, per quanto gestiti da un sapiente montaggio, non risparmiano i cliché oltre a non porre nel giusto rilievo la brava Carpenter (White Chicks).

L’ottima Linney (ancora nei panni di un’avvocatessa) è difatti l’autentica padrona della scena, fino alla confortante chiusura.

Sax Marmotta