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Recensione

WALL·E (con maiuscole e puntino di separazione in quanto futuribile sigla di una compagnia di smaltimento rifiuti, il cui acrostico sta per Waste Allocation Load Lifter – Earth-class), oltre a segnare il solito sorprendente e rapidissimo progresso tecnologico della nuovamente disneyana Pixar, la più antica e nota casa di produzione di cartoni animati digitali, ha il non comune pregio di dire cose terribili in maniera gentile.

Questo perché è avvitato su un carattere principale, un arrugginito e tenero mini-robot rimasto solo sull’abbandonato pianeta Terra, che da secoli (siamo nel 2800 circa) si cimenta meccanicamente – unico modello ancora funzionante – nell’improbo compito di creare e impilare inutili ecoballe di spazzatura.

L’apparizione del femminile automa EVE (Extraterrestrial Vegetation Evaluator, non a caso evocante il concetto di ripopolamento), in ricognizione alla ricerca di segni di vita, scatena nell’antiquato aggeggio, avvezzo alla sola compagnia di uno scarafaggio, sentimenti pressoché umani, maturati nel crescente interesse per i vari reperti “archeologici” scovati di giorno in giorno (fra i quali spicca una vhs di Hello, Dolly!).

I desertici panorami in cui si muovono i due diversissimi assemblaggi, che comunicano (scelta fantastica e valorosa!) senza parole (le informazioni sul passato le dà qualche video, mentre dei passaggi emotivi si occupano benissimo le musiche di Thomas Newman), sarebbero già sufficienti a parlarci del destino infausto verso il quale si avvia il nostro mondo; ma gli autori rilanciano, e poco dopo ci dimostrano (ottimisticamente) che la razza umana non si è estinta, ma ha saturato (davvero!) il suo periglioso ozio da qualche altra parte.

E questo è l’inatteso lato attuale del film, innamorato omaggio a 2001: Odissea nello spazio e cupo monito al più accorto pubblico adulto.

Max Marmotta