Trama

Hsiao-kang è un venditore ambulante di orologi a Taipei. Un giorno una sua potenziale cliente insiste per comprare quello che il ragazzo porta al polso. Il giovane, dopo un po’, cede, e resta colpito dal dolce che la signorina, in partenza per la Francia, gli dona.

Da quel momento Hsiao-kang, sofferente della recente perdita del padre e soprattutto dell’incapacità della madre di rassegnarsi al lutto, non smette di pensarla e, informatosi sulla differenza di fuso con Parigi, regola ogni quadrante che gli capita a tiro su quell’ora.

Nel frattempo, la graziosa acquirente si aggira spaesata nella metropoli europea.

Recensione

Attraverso un dichiarato omaggio –sottolineato dalla spiritosa partecipazione di Jean-Pierre Léaud– a I quattrocento colpi di Truffaut (che il protagonista noleggia e vede in più riprese), Tsai Ming-liang (scritto alla cinese, autore del sopravvalutato Vive l’amour, dell’interessante Il fiume e del riuscitissimo The Hole – Il buco) continua con perseveranza a parlare di solitudine (di quella che può render pazzi), con una leggerezza che non evita di mostrare gli squarci e le devastazioni interiori dei “collegati” protagonisti (i quali trovano contemporaneamente degli insoddisfacenti ripieghi sessuali per i loro malesseri): il venditore (Lee Kang-sheng, che ha interpretato lo stesso personaggio nei precedenti lavori del regista), ossessionato da un peculiare sentimento che lo libererebbe dai problemi quotidiani; la ragazza, della quale sconosciamo, per buona parte della trama, lo scopo del viaggio e che, ignorando la lingua, vaga tormentata per le vie di Parigi (che non si rivela una panacea); e la madre, intenta ad evocare lo spirito del marito che, secondo lei, potrebbe reincarnarsi in qualsiasi creatura.

Anche il defunto, collocato nella prima, lunga sequenza, caratterizzata dalla fissità della macchina da presa tanto cara al cineasta, sembra aver patito l’isolamento, e di conseguenza è in cerca, almeno nell’altra vita, di una realtà diversa.

In mezzo a tanti particolari lasciati accuratamente insoluti (uno dei motivi di fascino della pellicola) dalle spontaneamente architettate inquadrature, si fa spazio, inattesa, una pungente e impagabile ironia.

Max Marmotta