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Recensione

La storia di questa famiglia che a fine anni ’70 deve affrontare, a testa piuttosto alta, concreti problemi di sostentamento proviene direttamente dal vissuto della regista esordiente.

È il modo di Maya Forbes, di solito sceneggiatrice e produttrice, per ricordare un periodo cruciale dell’infanzia, delegando la sua vera figlia Imogene Wolodarsky per impersonarla (mentre la sorella minore è interpretata Ashley Aufderheide).

Due bambine affidate, con un pizzico di incoscienza ma con amorevole e incondizionata fiducia, da una genitrice (la splendida Saldana) che da Boston deve andare per sei mesi (eccetto i weekend) a NY per conseguire un master necessario ad aumentare le sue opportunità di lavoro (purtroppo limitate, all’epoca, per una donna nera) a un padre bipolare (un Ruffalo particolarmente in sintonia con il ruolo), mai davvero ripresosi da un forte esaurimento, soggetto a imbarazzanti scatti d’ira e gran bevitore e fumatore.

Il fatto che sappia cucinare bene e che ami le sue figlie non basta; ha origini altolocate, ma i parenti diretti contribuiscono poco o nulla dal punto di vista economico.

Se a ciò si aggiunge che il caotico giovanotto evita di prendere il litio prescrittogli (che serve a tenerlo calmo), si capisce quanto le bimbe siano continuamente esposte a situazioni paradossali (a casa, in cortile, a scuola) e perché siano costrette, con pazienza, a maturare in fretta.

Nessuna scena madre, sobrietà mista a un’empatia accentuata (magari per qualcuno) da una bella ambientazione vintage.

Non vogliamo niente di più.

Max Marmotta