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Recensione

Non è facile analizzare l’ultima fatica di Marco Bellocchio. Non certo perché non si tratti di un bel film, anzi: la ricostruzione dell’ascesa del giovane e ardimentoso socialista Benito Mussolini (in seguito, si sa, dittatore fascista), imbattutosi agli inizi del Novecento a Trento, dove lavorava e protestava, nell’appena più anziana Ida Dalser con cui intessé qualche anno dopo, a Milano, una tormentatissima relazione (suggellata, pare, da nozze) dalla quale nacque lo sfortunato Benito Albino, in qualche modo riconosciuto ma occultato e destinato a una vita breve e infelice, si rivela un pregevole saggio di (misconosciuta) storia, supportato oltretutto da rare immagini d’epoca che non solo arricchiscono il racconto ma contribuiscono fattivamente a dimostrare quanto conti il potere mediatico (allora, il cinema) in una scalata al vertice (ogni pellicola, a prescindere dall’ambientazione, tende a studiare il periodo in cui nasce).

Se ciò non fosse sufficiente, l’incipit è costituito da un virtuoso intreccio di flashback, tra manifestazioni, rincontri e duelli, con in più una significativa scena di sesso in grado di spiegare meglio di cento dialoghi la differenza tra amore e bramosia.

E poi c’è la formidabile intuizione dell’osmosi tra il Mussolini-personaggio (interpretato con impressionante aderenza da Filippo Timi), che sparisce a metà percorso, e il vero duce, quello dei filmati di repertorio, schizofrenicamente sostituito a un certo punto dalla disperata imitazione di un figlio indesiderato, rifiutato, abbandonato (da adulto, ancora l’inarrivabile Timi).

Quanto alla Mezzogiorno, la sua passionale Ida (non premiata a Cannes) resterà. Un’operazione così attenta e raffinata da rischiare di sconfinare, nella parte conclusiva, nell’intellettualismo.

Non è grave, soltanto una correzione di rotta da accettare.

Max Marmotta