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Recensione

Quello che colpisce al primo impatto nell’ultima fatica del cineasta neozelandese de Il signore degli anelli, inattivo dietro la macchina da presa dal 2005, anno di King Kong (come produttore, invece, ha avuto nel frattempo qualche bella intuizione, vedi District 9), non è il plot, tratto dal romanzo di Alice Sebold (messo in forma di sceneggiatura dal regista, dalla moglie Fran Walsh e da Philippa Boyens), che pure accusa qualche punto debole e qualche divagazione di troppo, bensì le soluzioni visive: per la vicenda di una vitale ragazzina, Susie Salmon, uccisa e occultata da un vicino serial killer, la quale ci illustra, a mo’ di voce narrante, il suo triste destino ma anche la colorata e prevalentemente giocosa dimensione onirica in cui dimora da tempo indefinibile, era in sostanza necessario inventarsi un mondo fantastico (un’altra “terra di mezzo”, giusto per usare un adeguato richiamo già inflazionato dalla stampa specializzata) in cui la nostra doveva muoversi credibilmente.

Vedendolo, magari a qualcuno tornerà in mente l’universo parallelo dai toni ancora più squillanti di un drammatico film con Robin Williams datato 1998, Al di là dei sogni, firmato da un conterraneo di Jackson, Vincent Ward, tuttavia meccanismi, cause, obiettivi sono qui alquanto differenti.

Gli autori, infatti, non si sono limitati a creare significative immagini ricorrenti (la palla o il gazebo, simbolo di una pubertà negata), ma sono riusciti contestualmente a inserire riflessioni sulla vacuità della vendetta, da sostituire con una giustizia divina (per quanto il ragionamento esuli da connotazioni religiose) tanto più importante quanto defilata.

Ciò non riconduce a bomba a un percorso dalle pretese moralistiche; piuttosto a uno spettacolo condotto con sufficiente intelligenza da meritare la visione.

Max Marmotta