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Recensione

Di fiction sulle straordinarie figure dei magistrati Giovanni Falcone e Paolo Borsellino se ne è fatta, e se ne farà molta, sia per il cinema sia per la televisione.

Pellicole scritte, girate e montate a caldo, sull’onda lunghissima dell’emozione e della rabbia degli italiani nei confronti del coriaceo fenomeno mafioso, oppure concepite a distanza di qualche tempo, per mantenere viva la memoria.

A prescindere dalla qualità, si è sempre trattato di titoli atti a sottolineare il mero eroismo di questi servitori dello Stato e dei loro predecessori, deputati, prefetti, alte cariche della polizia o agenti addetti al servizio di scorta (ogni lungometraggio ne menziona o ne salta qualcuno in più, tanto sono dolorosamente numerosi), onesti e instancabili, esempio imprescindibile per le nuove generazioni.

In un momento storico in cui la mafia non uccide ma, come viene spiegato, è in una minacciosa fase di riorganizzazione, esce questo documentario in video di Marco Turco (a parte alcuni corti, all’attivo solo Vite in sospeso, andato in onda direttamente sul piccolo schermo), il primo sull’argomento ad approdare, con il prezioso aiuto della Fandango di Procacci, in sala, in attesa di una pubblicazione in dvd maggiorata di circa un’ora (sofferti i tagli che, come ha dichiarato il coraggioso produttore Marco Visalberghi, hanno sancito la compartecipazione finanziaria di Francia, Regno Unito, Svezia, Finlandia, Australia e la circolazione di questa versione da 92 minuti anche all’estero) e della trasmissione su RaiTre, che ha a sua volta congruamente supportato la realizzazione e la raccolta di materiali.

Si parte dal libro del giornalista statunitense Alexander Stille (“Nella terra degli infedeli”, lo stesso che fornì l’ispirazione per I giudici), che sceneggia, insieme al regista e a Vania Del Borgo, e fa da guida agli spettatori, con la voce di Fabrizio Gifuni, attraverso un quarto di secolo di misteri e vergogne siciliani (si comincia, per scelta, dal 1979, quando venne assassinato il capo della squadra mobile Boris Giuliano).

La sua è un’indagine solitaria ma ostinata, messa insieme in biblioteche e archivi deserti (la verità interessa a pochi?) e grazie agli incontri con l’amica palermitana Letizia Battaglia, fotografa che ha assistito ai diversi passaggi della lotta a Cosa Nostra, profonda conoscitrice della propria città e ormai sfinita dalle immagini violente che ha immortalato.

Turco si sofferma su un momento storico importantissimo, forse il colpo più duro inferto al potere criminale siculo: il maxiprocesso celebrato, in un’aula bunker blindatissima costruita per l’occasione, a partire dal 10 febbraio 1986 (e il debutto ufficiale del film è caduto, non a caso, esattamente vent’anni dopo).

Con l’ausilio di sequenze di repertorio che incorniciano perfettamente un’epoca (e un tipo di “uomo d’onore”), di testimonianze di giudici che lavorarono a stretto contatto con Falcone e Borsellino (bastino i nomi di Giuseppe Di Lello, Pietro Grasso, Giuseppe Ayala, Leonardo Guarnotta), si ripercorrono tutte le vicende professionali (il celebre pool coordinato da Caponnetto) e umane, i successi, le amarezze, i dubbi, le paure di due uomini che in un altro Paese, visti gli eccellenti risultati ottenuti, sarebbero stati messi in condizione di agire al meglio, sarebbero stati protetti e non abbandonati in nome di marce collusioni tra delinquenza e politica che lo script, altra sua peculiarità, non teme di palesare con nomi e cognomi, anche “aggiornati”.

La chiusura è sconsolata, ma solo di primo acchito. Infatti, pur sciorinando fatti noti a gran parte del pubblico, l’opera solleva – con umiltà e asciuttezza – una tale indignazione da smuovere perfino le coscienze più assuefatte.

Max Marmotta