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Recensione

Un trailer, anzi un videoclip girato per la scaltra promozione che ha fatto discutere e creato attesa anche fra gli ingenui sovranisti preposti a fraintendere o immemori dei precedenti di Checco Zalone. Una partenza con il botto (oltre 8 milioni nel giorno d’uscita) seguita da un normale eppur brusco rallentamento che, oltre a confermare il clima, preclude l’abbattimento d’un nuovo record. Un’opposizione fra opinioni (spesso non richieste) prettamente politica. È chiaro che non si parla solo, cioè “tolo” d’una commedia. Con i numeri stratosferici (più di 1 € a compatriota) ottenuti con Quo vado? (2016), quarta incursione al cinema di Zalone, all’anagrafe Luca Medici (così si firma in sede di sceneggiatura, stavolta scritta addirittura con Virzì), cos’ha indotto l’acuto comico (che ormai cita Pasolini) a cacciarsi nel ginepraio della seria e delicata questione dell’immigrazione nel nostro Paese (peraltro differenziandosi dai recenti Contromano e Scappo a casa)? Avrebbe potuto procedere sul velluto con temi meno impegnativi (o, come si dice oggi con una brutta parola, divisivi), invece ha usato la sua visibilità per schierarsi – imbastendo una produzione impegnativa (locations dal Kenya al Friuli) – e fornire spunti utili a chi, accorso per sghignazzare, non bada alle sofferenze che tante persone magari istruite e incolpevolmente segnate da povertà e conflitti armati son costrette ad affrontare. E con tale mossa, pure se facesse riflettere uno spettatore, ha già vinto. 

La trama vede un avventato e fallimentare imprenditore pugliese riparare agevolmente in una nazione africana per evitare le mazzate del fisco (ricadute sui suoi familiari), il quale, allo scoppio d’una guerra civile, fugge con altri disperati del luogo (in particolare un colto cameriere, una combattente dallo sguardo fiero e un bambino) verso l’Italia, tra perigliose traversate del deserto e del mare, passando per le prigioni libiche (qui ci si limita) e rinsavendo per amore. 

L’unico vero errore dell’esordiente regista Medici (Nunziante tecnicamente la sa più lunga) consiste nell’infilare all’inizio troppe gags di diverso genere (che servono poi), risultando leggermente teso nella prova d’attore; però il resto fila, dall’uomo medio(cre) in cui il pubblico si specchia ancora al signor nessuno (Gianni D’Addario) che brucia le tappe, dai sapidi moniti sul galleggiamento e sul fascismo (che, si ribadisce, purtroppo “è in ognuno di noi”) ai tradimenti a vari livelli (del compagno di sventura, del giornalista vanesio, finanche del saggio), dalle canzoni di sintesi a caratteristi (fra loro Nocella, Bouchet, Attili, Di Bari) e guest stars a sorpresa.

Max Marmotta