Video & Photo

1 videos

Recensione

I miti si aggiornano di continuo, specie quando si parla di mostri. Se la moda impone di ripescare e rifare il trucco ai feroci assassini cinematografici degli anni ’80, figurarsi se i produttori non si ricordano periodicamente delle spaventevoli e letali creature sfruttate fino all’inverosimile dalla Universal un ottantennio fa.

Un’avvisaglia era già Van Helsing (2004), che radunava molti di quei personaggi, ma Joe Johnston, fattosi le ossa in film per famiglie e responsabile del terzo Jurassic Park, è stato chiamato a occuparsi di uno solo di loro, l’Uomo Lupo.

Niente a che fare con le rivisitazioni di Landis, Dante o Jordan: stavolta si pretende di partire dalla sceneggiatura dell’originale, scritta dall’esule Curt Siodmak per la regia di George Waggner nel 1941.

In realtà, di quell’ingenua eppure ancora così seducente pellicola è rimasto qualche spunto, qualche nome qualche carnoso brandello; perfino l’epoca è stata spostata indietro, poiché l’azione si svolge a fine Ottocento nel villaggio di Blackmoor, dove ritorna dopo una lunga tournée americana l’attore teatrale – con traumi giovanili – Lawrence Talbot (il più che adatto Del Toro), convocato da Gwen (Blunt, che supera la prova del primo ruolo importante), sconosciuta e preoccupata fidanzata del fratello misteriosamente ucciso.

Per l’occasione, il protagonista si ricongiunge al nobile e distante padre (Hopkins, freddamente ancorato al proprio professionismo) e, a causa di altre cruente morti nelle notti di luna piena, s’imbatte pure nel meticoloso ispettore Aberline (convincente Weaving).

La leggendaria licantropia, alla radice degli omicidi, incombe sull’ignaro Lawrence. Un’opera ineccepibile per gli effetti speciali (impressionanti le scene di trasformazione, soprattutto quella in manicomio), inessenziale per la storia del cinema.

Max Marmotta