Il discorso del re

Dopo avere diretto l’interessante dramma sportivo Il maledetto United, Tom Hooper confeziona questa rifinita pellicola biografica adattissima ai gusti dei giurati dell’Oscar; infatti, ha appena ottenuto 12 candidature, incluse quelle per miglior film, regia, protagonista (l’impeccabile Colin Firth) e comprimari (il metodico Geoffrey Rush e la mimetica Helena Bonham Carter).

Saltando i convenevoli tipici per un’opera in costume sapientemente confezionata che fa buon uso della sua implicita eleganza (non solo formale) e il cui percorso narrativo è già scritto nei libri di storia (nel dettaglio, l’ascesa al trono in circostanze sfavorevoli – non ultima l’imminenza del secondo conflitto mondiale – di Giorgio VI d’Inghilterra, padre dell’attuale regina Elisabetta, incapace di rivolgersi ai sudditi via radio o in occasioni pubbliche a causa di una radicata balbuzie nervosa, incoraggiato dal pragmatico logopedista australiano Lionel Logue, con il quale nel tempo instaurò un corroborante rapporto umano), è un piacere udire in un lavoro dall’impostazione così seria (potenzialmente rigida, perfino) la levità dei dialoghi, la spontaneità di un gruppo di interpreti perfettamente in sintonia, la saggezza di alcuni passaggi che condannano abbastanza indirettamente i pregiudizi umani in una prosa tanto sapida quanto universale e priva di snobismi (applausi allo sceneggiatore di lungo corso David Seidler), come se, opportunamente, la ragion di Stato appartenesse a tutti noi.

Fra le righe c’è addirittura spazio per un monito, a sua volta estendibile a ogni comune mortale, sulla responsabilità di essere genitori: quanti errori dagli esiti permanenti si annidano dietro qualsiasi imposizione, anche se inflitta con le migliori intenzioni! Che si consumi tra le mura domestiche o dentro un palazzo reale non importa.