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Recensione

Si può realizzare un film su una vicenda (scottante e purtroppo non isolata) ancora aperta? Sì, partendo dagli atti.

Un carteggio d’una decina di migliaia di pagine che il regista (al debutto, e che debutto) Cremonini e la sua cosceneggiatrice Lisa Nur Sultan hanno esaminato prima di stendere un copione duro, asciugato come il corpo di un (finalmente) sorprendente Borghi, calatosi con partecipato metodo nei panni di Stefano Cucchi, arrestato per detenzione di droga a Roma una sera d’ottobre del 2009 e deceduto una settimana più tardi in ospedale, dov’era finito a causa di violente percosse.

Il giovane scelse di non raccontare quasi a nessuno cosa gli era stato fatto mentre era in custodia (tranne quando, dolorante, iniziava a estinguersi), le sue gravissime condizioni non furono tenute nella giusta considerazione; in più, ai genitori (interpretati con misura da Tortora e Marigliano) e alla sorella (una risoluta Trinca) non fu permesso di vederlo, se non da morto.

Un’opera che non punta il dito, bensì mostra le terribili conseguenze d’un sistema nel migliore dei casi distratto.

Con un martire che non è certo un santo, fra cattive abitudini, indolenza e quel mutismo votato a non farsi bollare dalle forze dell’ordine in qualità di spacciatore (accusa peraltro da lui testardamene respinta) una volta rilasciato.

Ma l’assunto, in una società degna, è lo stesso di Dead Man Walking.

Torna l’impegno civile di un tempo.

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Max Marmotta