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Recensione

La definizione “film di spionaggio” applicata alle pellicole di James Bond, serie inesauribile (ormai relativamente, dato che quest’ultimo episodio, firmato, come il precedente Casino Royale di cui costituisce il vero e proprio sequel, dagli sceneggiatori Paul Haggis, Neal Purvis e Robert Wade, verrà ricordato come il primo privo di reali agganci ai romanzi di Ian Fleming), da qualche tempo in qua ha sacrificato il lato avventuroso e le parentesi ironiche (in riferimento all’accigliato protagonista Daniel Craig, per la seconda volta nello smoking dell’agente 007) al versante thriller con tanta, tantissima azione.

E se facciamo caso alle prime due spettacolari sequenze, ne ha ben donde; siamo sicuri però che una formula così incalzante non nuoccia alla scorrevolezza della trama? In effetti, l’intricato plot – la solita caccia per il pianeta, dall’Italia ad Haiti, dall’Austria alla Bolivia, a un ambizioso mega-criminale, che qui spaccia per beneficenza delle mostruose speculazioni e si prepara al business derivante dall’imminente crisi idrica globale – ogni tanto rischia di annodarsi e, ancor più grave, di lasciare in ombra denunce strenuamente concrete (l’impoverimento territoriale, la longa manus di spietati affaristi, il profondo stato di corruzione di servizi segreti e governi sudamericani).

Ma, riflettendoci, sarebbe peggio se tutte queste sottotracce, vista la natura ludica dell’opera, non ci fossero e si puntasse unicamente all’intrattenimento.

Fra l’altro, il regista Marc Forster dimostra ulteriormente il suo eclettismo, che gli permette di passare agilmente dai toni lugubri di Monster’s Ball alla magia biografica di Neverland, dai labirinti mentali di Stay alle vicende surreali di Vero come la finzione, fino al dramma lancinante de Il cacciatore di aquiloni.

Forse la vera diva è la sua inventiva cinepresa.

Max Marmotta