Video & Photo

1 videos

Recensione

Negli ultimi anni la cinematografia statunitense non di rado ci propone pellicole che dietro una semplicità addirittura irritante celano complessità quantomeno affascinanti, dividendo seriamente sia il pubblico che la critica. Per esempio, se la sci-fi palindroma di Arrival raccoglie comunque un maggior numero di plausi, l’allegorismo catastrofico di madre! lascia perlopiù interdetti. In un simile panorama (esempi a decine) l’ultima fatica di James Gray, il cui percorso d’autore cresce in coerenza (titolo più recente: Civiltà perduta), si inserisce con la probabile caratteristica di produrre quote equipollenti di sostenitori e detrattori. I secondi saranno infastiditi dal tono vagamente prosopopeico da space opera, mentre i primi assaporeranno la pluralità di temi affrontata, che oltre agli aspetti familistici e prettamente scientifici, si libra temerariamente tra la filosofia (banalmente: siamo soli nell’universo?), la religione (tra aspirazione al divino e discendenza che deve/vuole essere all’altezza), la psicologia (traumi, emozioni trattenute…) e l’ambientalismo (sì, il pianeta non ce la fa più). 

In un futuro imprecisato però non lontanissimo (e occhio all’inflazione!), il professionale e piuttosto attonito astronauta Roy (Pitt, in ammirevole sottrazione) è inviato in missione (ovviamente segreta) in direzione di Nettuno (via Luna – tristemente colonizzata – e Marte) alla ricerca del genitore/collega Clifford (Jones) mai più rivisto dall’adolescenza, partito 29 anni addietro alla scoperta di vita aliena e dato praticamente per morto, se non fosse per dei gravi fenomeni  astrali che infestano in maniera progressivamente preoccupante il sistema solare e che forse dipendono proprio da qualche sua azione più avventata che incosciente. L’anelato ricongiungimento con una figura prevalentemente idealizzata, vera causa d’una scelta lavorativa che conduce giocoforza lungi dagli affetti (l’apparentemente appartata e comprensiva consorte Eve di Liv Tyler assume un ruolo di peso), si trasforma nella buia constatazione – un po’ troppo telefonata dal logoro adagio “le colpe dei padri ricadono sui figli” – che le scelleratezze umane non vanno ricalcate con la medesima cecità, bensì analizzate, smontate, messe in discussione, all’occorrenza rinnegate, perché l’involuzione è dietro l’angolo, magari sotto forma di primate inferocito che esplicita il vuoto riflesso sui caschi dei “pionieri”. 

Nel quadro delle (piacevoli) derivazioni, difficile non pensare all’asciuttezza di Soderbergh, Nolan, ovviamente Kubrick. E, data la presenza di Sutherland, ex-compagno di spedizione del disperso, a un aggancio a Space Cowboys 

Max Marmotta