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Recensione

Un impeccabile cast prevalentemente al femminile –ai nomi di cui sopra vanno aggiunti almeno quelli di Elisabetta Pozzi, che interpreta la psichiatra nell’ultima scena, di Michela Cescon, ovvero la madre di Benny (la giovanissima Comencini è l’unica un po’ incerta), e di Caterina Vertova, che con Stefano Santospago anima una delle prime drammatiche sequenze– è il segreto della piena riuscita del nuovo lavoro di Ferzan Özpetek, da principio forse meno attraente, se proprio vogliamo fare dei confronti, dei precedenti Le fate ignoranti e La finestra di fronte, ma elegante ed equilibrato nel suo obbiettivo: evocare, esprimere quel sentimento spirituale “delocalizzato” e latente –quale ne sia la forma non importa– in ciascuno di noi.

La sceneggiatura, scritta dall’autore insieme al produttore Gianni Romoli, rifugge dal potenziale cliché (le conversioni cinematografiche, in particolare di un abbiente che comprende la povertà, non sono più quantificabili) per sciorinare un tortuoso percorso personale (dai chiarimenti centellinati), senza per forza tirare in ballo fantasmi o reincarnazioni, o ignorare le cupezze che si nascondono dietro l’illuminazione.

Irene Ravelli (l’intensa Bobulova) cambia, si accorge degli altri a dispetto dell’ovattata ricchezza che, secondo i piani dell’inarrestabile zia, dovrebbe accecarla e assordarla.

Con successo.

Max Marmotta