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Recensione

Tratto – con programmatica e dichiarata infedeltà – dall’omonimo e dolorosamente privato best seller di Massimo Gramellini, il film, che Bellocchio, supportato dai co-sceneggiatori Valia Santella ed Edoardo Albinati, fa “suo” sottendendo un possibile asse con L’ora di religione, intreccia varie epoche.

Linfanzia del protagonista (interpretato, in due fasi diverse, dai giovanissimi Nicolò Cabras e Dario Dal Pero), segnata dall’improvvisa scomparsa della madre (Ronchi) e dalla passione per il Torino (la famiglia abita proprio di fronte allo Stadio Olimpico); la sua carriera giornalistica (cronista sportivo, politico, inviato a Sarajevo, curatore della rubrica della posta); il 1999, quando l’uomo deve svuotare la casa e misurarsi infine con il passato.

Massimo (è anche il nome del personaggio, che in età adulta ha il volto di Mastandrea), inappagato dai rapporti con il ruvido padre (Caprino) e dalle risposte della Chiesa (rappresentata dal dogmatico Roberto Di Francesco e dal più filosofico Roberto Herlitzka), non lega con nessuna donna, finché, colto letteralmente dal panico, incontra la dottoressa Elisa (Bejo), che lo aiuta a gettare le “zavorre”.

Impreziosito da attori di rango (i cinque minuti di Fabrizio Gifuni sono i migliori) e da macabri auto-rimandi (la statuina cadente, l’apertura del gas…), il plot incespica solo sull’assenza di qualche rifinitura (la vicenda ospedaliera e soprattutto le inesattezze sulle età).

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Max Marmotta