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Recensione

In un’epoca in cui sembra (ingiustamente) decretata la morte del western, non si può che accogliere con favore l’operazione dei fratelli Coen: un nuovo adattamento del libro di Charles Portis Un vero uomo per Mattie Ross, avulso – almeno nelle intenzioni – da quello precedente, portato sullo schermo da Henry Hathaway nel 1969, che valse al protagonista John Wayne, già anziano, il suo unico Academy Award.

Per la verità, le similitudini narrative sono inevitabilmente parecchie, tanto che, a parte qualche dettaglio, i due film, per trama, sarebbero facilmente accostabili.

Non si può nemmeno parlare di aggiornamento del mito, perché i registi, comunque bravi a calcare la mano sulle efferatezze e sugli aspetti meschini (in ogni senso) dei loro personaggi, senz’altro illustrano a loro volta un riscatto dalla disillusione, ma a dispetto dell’ambientazione parlano di un’America composita le cui fattezze risultano più attuali oggi rispetto a quarant’anni fa.

È una tesi corroborata dalla parziale riabilitazione del personaggio di LaBoeuf, il cacciatore di taglie texano qui interpretato da Damon, sempre sbruffone eppure capace di rientrare nei ranghi.

Per il resto, il film, che racconta l’inseguimento di un assassino (Brolin) da parte di una volitiva e praticissima ragazzina (l’ancora per poco sconosciuta Steinfeld, candidata all’Oscar come comprimaria) determinata a vendicare il padre e perciò in grado persino di assoldare uno sceriffo rozzo, svogliato e ubriacone (sublime Bridges, che meritatamente inanella la sua seconda nomination consecutiva), è girato con lo stile netto e ammirevole dei suoi autori (anche loro in lizza per regia e sceneggiatura) e un occhio al classico.

Insomma, a prescindere dagli allori hollywoodiani, ci sono i numeri per fare riaffezionare il pubblico alle storie di frontiera.

Il che non sarebbe male.

Max Marmotta