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Recensione

Fra tante “ordinate” docufiction su musei, opere, correnti o singoli artisti, un biopic disallineato ci voleva! Vari i pregi: è finalmente calato in un credibile Cinquecento, durante un Rinascimento sudicio, affamato, competititivo, con l’ombra cupa del Medioevo a insistere sull’incipiente Età Moderna e la bellezza di dipinti e statue a ergersi sulla cruda realtà; è diretto dal ritrovato maestro Končalovskij (di cui, a onta dei recenti premi veneziani, la nostra distribuzione s’infischia), che omaggia il compianto amico Tarkovskij (le splendide sequenze del complicato trasporto del gigantesco blocco di marmo carrarese evocano Andrej Rublëv); è recitato, per ormai rara correttezza filologica, in italiano; trova nello sconosciuto Testone una figura assai aderente al Buonarroti.

Il quale è descritto come pittore e scultore richiesto e ben pagato (però sempre al verde, anche per investimenti di famiglia), costantemente in ritardo sulle troppe commissioni, lavorando sia per i Della Rovere, imparentati con papa Giulio II (Massimo De Francovich), sia per i Medici, che si avvicendarono al pontificato con il loro Leone X (Simone Toffanin).

Un perfezionista insicuro, sofferente, invidioso del nascente astro Raffaello (Glen Blackhall).

Il film esibisce un sottotitolo ansiosamente esplicativo, Il furore di Michelangelo, da intendere nell’accezione dell’urgenza creativa.

Pregni mini-ruoli per Orso Maria Guerrini e Gianluca Guidi.

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Max Marmotta