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Recensione

Qualcuno dice: non si stanno tributando troppi riconoscimenti (fra gli altri, il Leone d’Oro veneziano e 13 candidature all’Oscar) per un fantasy romantico debitore, piuttosto apertamente, del classico Il mostro della laguna nera e, più nascostamente (e restando stretti), di Splash – Una sirena a Manhattan (alcune coincidenze sono impressionanti) e del cinema di Jeunet (che un po’ si è anche lamentato)? Beh, l’osservazione è legittima, specie quando si è in cerca di novità assolute (se ne esistono ancora).

Ma il messicano del Toro – che qui giunge a una summa, ancorché di stampo commerciale, della sua poetica – ci ricorda indirettamente che chi sa copiare rielaborando a modo proprio non incorre in brutti voti.

Con buona pace di chi è encomiabilmente più originale.

La coinvolgente storia riguarda l’inserviente muta Elisa (Hawkins, bellezza atipica e performer da sempre meritevole della ribalta) che lavora con la collega Zelda (l’ormai simpaticamente tipizzata Spencer) all’interno di un segretissimo laboratorio governativo in un’epoca di competizioni da Guerra Fredda (quindi inizio anni ’60).

Qui s’imbatte in una creatura anfibia (Jones, habitué del regista e dei ruoli amorfi), oggetto di invasivi (e scorretti) esperimenti, costantemente maltrattata dall’agente Strickland (un detestabile Shannon).

Fluida ode dell’alterità, liquido omaggio alla fantascienza che fu, scorrevole fiaba per adulti; comunque, non è poco.

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Max Marmotta