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Trama

John Worthing, detto Jack, è un trentacinquenne dell’Inghilterra vittoriana residente in campagna, tutore della giovane Cecily Cardew.

Quando vuole spassarsela a Londra, dice alla sua protetta e alla di lei istitutrice, Miss Prism, che va a regolare l’ennesima malefatta del suo inesistente fratello, lo scapestrato Ernest.

È proprio con questo nome che Jack è conosciuto in città, anche da Lady Bracknell e da sua figlia Gwendolen, di cui è innamorato.

Pure lei lo ama, soprattutto per il “suo” nome che le trasmette sicurezza. Ma il matrimonio è reso impossibile dalla mancanza di lignaggio dell’uomo. Intanto, il suo amico Algie (da Algernon) Moncrieff, cugino di Gwendolen, divorato dai debiti ed avvezzo ad aggirare gli impegni mondani con la scusa delle cattive condizioni di salute del suo immaginario amico Bunbury, pensa bene di trasferirsi a casa di Jack (a sua insaputa), spacciandosi per Ernest e iniziando a corteggiare Cecily, nemmeno lei insensibile a tale appellativo.

È l’avvio di una serie di equivoci.

Recensione

Parte abbastanza sommessamente il nuovo lungometraggio dell’ex-attore teatrale Oliver Parker, già regista di Othello (con Larry Fishburne) e di Un marito ideale, ancora con Everett e sempre da Wilde.

Il merito è senz’altro di quest’ultimo se il divertimento monta di pari passo con i malintesi, servito da battute pungenti, argute, compassate (soprattutto l’irresistibile maggiordomo Lane di Edward Fox).

Firth (Jack) e Everett (Algie) stanno al gioco, formando una coppia di malandrini bene assortita, ma è Judi Dench (Lady Bracknell) la più brava di tutti (i tre attori erano nel cast di Shakespeare in Love).

Anche l’imbarazzato dottor Chasuble di Tom Wilkinson è degno di nota, così come lo sono la fantastica scenografia di Maurizio Millenotti e gli impeccabili costumi di Luciana Arrighi.

Per chi non lo sapesse, il nome Ernest si pronuncia allo stesso modo della parola inglese “earnest”, cioè onesto; un intraducibile gioco di parole che è la linfa del testo originale, non a caso felicemente ribattezzato da qualcuno “L’importanza di chiamarsi Franco”.

Max Marmotta