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Recensione

Proprio quando il (glorioso) cinema indipendente americano sonnecchia, o forse dovremmo dire non da più tangibili segni di vita, ecco arrivare la giovane, intelligente e premiatissima Miranda July (somigliante, alla lontana, a Emily Watson) a dare una salutare rinfrescata a storie, temi, stili minimalisti ma consistenti.

Nell’immagine finale (non riveliamo nulla di fondamentale) la neo-regista ci mostra il personaggio più stabile, Robby (Brandon Ratcliff), di soli sei anni, chiarire a modo suo (il migliore) l’ennesimo dubbio che lo attanaglia, ricevere una ricompensa e “governare” il tempo, privilegio che non è in dote al mondo adulto che lo circonda.

Basterebbe praticamente questa sapida intuizione a valorizzare il film, che peraltro è percorso da meste notazioni di costume, repressioni quotidiane, confusi pruriti adolescenziali (tutto trattato con sorprendenti misura, poesia, assenza di volgarità), silenzi contrapposti a dialoghi “lunari” (soprattutto quelli tra il recentemente separato e apparentemente inconsolabile commesso Richard/John Hawkes e la candida artista costretta ad arrabattarsi come autista per anziani Christine/July, innamorata – forse non corrisposta – di lui).

Tante normalità in sordina, insoddisfazioni ovattate e sparse grazie agli ottimi caratteri di contorno: Peter/Miles Thompson, fratello maggiore di Robby, e poi le due coetanee che lo tormentano, l’altra che lo educe sul suo futuro di moglie, la direttrice di mostre tristemente scostante, il secondo amore del vecchio cliente di Christine, il vicino/collega potenzialmente maniaco di Richard, l’algida moglie di quest’ultimo.

Ogni elemento e il modo in cui è relazionato agli altri contribuisce alla riuscita di un lungometraggio tanto meritorio quanto low-budget.

Max Marmotta