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Recensione

Violento, disturbante, cinico fino alla spietatezza, disperato: tutto questo era dieci anni fa il coreano Old Boy (due parole) di Park Chan-wook ed è oggi il remake (di una sola parola) di Spike Lee, al quale ogni tanto capita un progetto su commissione e di cui la nostra distribuzione e il nostro pubblico spesso si scordano.

Lo scheletro del plot è intatto: un discutibile esemplare umano che sputa sulla propria rispettabilità (in famiglia come in società) viene rapito mentre è ubriaco e rinchiuso in un’anonima stanza d’albergo: letto, bagno, tv.

Nient’altro, nemmeno una finestra o un’ombra di sospetto sul motivo di quel che gli sta accadendo.

Di più: previo notiziario scopre di essere accusato dell’omicidio dell’ex-moglie. Per ben vent’anni (cinque in più dell’originale) ignoti e crudeli carcerieri gli passano il cibo da una porticina basculante e, all’occorrenza, lo addormentano con il gas.

Mentre pianifica la fuga, l’uomo (un opportunamente laido Josh Brolin) è rilasciato. Ovvio che cerchi con ogni mezzo (anche e soprattutto quelli meno gentili) di trovare un senso al calvario inflittogli, dando la caccia al responsabile.

Il più delle volte cucinare in un’altra salsa un bel film del passato non è necessario, e il lavoro di Lee, pur dignitoso, scorrevole e impressionante (magari di più per chi non conosce l’originale) non sfugge a tale considerazione.

Tuttavia, qualche zampata d’autore c’è, sebbene non ai livelli di Inside Man. E poi Copley e Jackson, già avvezzi, verranno ricordati nella galleria dei cattivi più tremendi.

Max Marmotta