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Recensione

D’accordo, la reale attrattiva di questo dramma (dall’alto potenziale depressivo, avvisiamo gli “spensierati”) diretto dal parsimonioso Sam Mendes (finora una pellicola ogni tre anni, sebbene abbia già terminato Away We Go e sia in lizza per due nuovi progetti), attivissimo in teatro, dal quale ha espunto la capacità di governare magnificamente gli attori, è e rimane la riunione dei protagonisti del celebratissimo e ormai lontano Titanic, ovvero sua moglie Kate Winslet, per la cui duttilità interpretativa le lodi non sono mai abbastanza, e Leonardo DiCaprio, costantemente dotato di un talento sbalorditivo (per quanto, a volergli fare le pulci, non aiutato da un aspetto ostinatamente adolescenziale, non per forza adatto a tutti i ruoli che ricopre); e dal film sul naufragio più famoso della storia proveniva pure Kathy Bates, sublime nel tratteggiare l’amica di famiglia più attempata e incolpevolmente superficiale.

Ma qui c’è perfino un apprezzato testo di partenza, un romanzo di Richard Yates, trattato in maniera pressoché perfetta dalla sceneggiatura di Justin Haythe, che rende con precisione la deriva della coppia ordinaria al centro della vicenda (ma occhio anche alle debolezze e agli spiccati malesseri di chi la circonda), piantata, senza prospettive che la distinguano dalle altre, nel Connecticut dei Cinquanta e proiettata verso una fuga, un sogno, una svolta esistenziale per un breve, chimerico e, improvvisamente e spietatamente, frustrante periodo.

Un’utopia liberatoria proposta dalla moglie, possibilmente innocua, magari difficile da portare a compimento o soltanto non risolutiva, di certo latrice di quel cemento utile a sanare le incrinature infingarde che, a lungo andare (e quasi sempre per i limiti maschili), finiscono con il minare i connubi.

I figli restano sullo sfondo, e forse è giusto così.

Max Marmotta