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Recensione

Le farse calcistiche degli anni ’80 (di Sergio Martino e non solo), comunque non sempre baciate da grandi incassi, si incentravano spesso su squadre inventate, dalla Longobarda alla Marchigiana, per immergersi poi fra le gloriose società e i volti celebri dell’epoca, tra giocatori e addetti ai lavori che apparivano in qualità di guest stars. Il debuttante Leonardo D’Agostini, affiancato in sede di sceneggiatura da Giulia Steigerwalt e Antonella Lattanzi e sostenuto dalla produzione di Sydney Sibilia e Matteo Rovere (ovvero due fra i temerari giovani registi italiani odierni con più intuito), rovescia tale prospettiva un tempo di moda, inscenando le tribolazioni di un bomber ventenne d’estrazione umile caratterialmente non cattivo eppur segnato (l’incipit lo descrive già benissimo), completamente inventato (sebbene riconducibile a vari campioni), Christian Ferro (il rapidamente consolidato e affidabile Andrea Carpenzano di Tutto quello che vuoi e La terra dell’abbastanza), militante però, con fama e denaro a palate, in una Roma in cui anche compagni e dirigente (Massimo Popolizio) sono immaginari. Una scelta narrativa coerente e svincolante, libera; tra una scena e l’altra si riconosce giusto qualche vero commentatore. Co-protagonista è Valerio Fioretti (un equilibrato Stefano Accorsi), valido insegnante dal curriculum accidentato (e dai trascorsi dolorosi) reclutato profumatamente per istruire l’intemperante goleador, spesso al centro di bravate riprese dai giornali, e condurlo al conseguimento della licenza liceale. 

Quanto (poco) nelle alte sfere ci si preoccupi realmente per l’atleta, che nel suo privato cammino di maturazione non manca di interessarsi a una brava ragazza (Ludovica Martino, tanto somigliante a una Ragonese adolescente) a dispetto del superficiale universo femminile che gli ruota attorno, è il nucleo della trama, la quale, ci si accorge progressivamente, usa lo sport e i milioni che lo snaturano (argomenti che dovrebbero attirare l’attenzione del pubblico) solo in funzione di grimaldello per illustrare una classica storia di crescita reciproca e parallela, di riconoscimento e rispetto, una delle più collaudate rielaborazioni di un rapporto padre-figlio (ben motivato dal plot) che tuttavia può contare su una confezione accattivante (onore al montaggio di Gianni Vezzosi) e al contempo onesta, su un percorso credibile perfino nelle battute d’arresto. E implicitamente si dimostra che l’ignoranza, o più specificamente la chiusura mentale non porta lontano. Cameo in sottrazione per Anita Caprioli; a farsi notare è l’ottimo Mario Sgueglia nel ruolo del cinico procuratore di Christian. 

Max Marmotta