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Trama

Maggio 1948, pochi giorni prima della proclamazione dello stato d’Israele. Un nutrito gruppo di giudei europei naviga a bordo della Kedma verso la Palestina, nella speranza di un’accoglienza che gli faccia dimenticare le terribili esperienze patite durante la guerra.

Ad attendere i profughi non ci sono solo i combattenti ebrei, che li accolgono e cercano di proteggerli e che sono in eterno conflitto con gli arabi, ma anche gli usurpatori inglesi, alle loro ultime prepotenze.

Il cruento scontro armato coinvolge nel giro di poco anche i nuovi arrivati, costretti ad imbracciare i fucili.

Recensione

In coerente analogia alle opere precedenti (Kippur, Eden), Amos Gitai ci racconta il passato per provare a spiegarci l’oggi, le infinite implicazioni di un conflitto che sembra non conoscere requie.

La scena dello sbarco, con le famiglie che si separano nell’incognita di rincontrarsi, appare come un’illustrazione della perpetuità della diaspora, un’ineluttabile maledizione che rende folli, urla con quanto fiato ha in gola il personaggio di Yanoush nello struggente monologo finale, praticamente inascoltato nell’urgenza della fuga.

Il regista suggerisce con paradossale sobrietà che ogni popolo scappa da un persecutore, dando luogo ad una catena d’odio di cui non si scorge l’estremità e causa innumerevoli morti inutili.

Toccanti sono gli aneddoti che sintetizzano la storia personale di ogni carattere (da Rosa al polacco Roman al cantore Menachem), usati quasi a mo’ di presentazione teatrale, simboli efficacissimi di un orrore destinato a solcare persino le generazioni a venire.

Forse il parlato sacrifica il dinamismo in senso stretto, ma il dolore portato dalla cieca violenza dell’uomo arriva dritto allo spettatore.

Senza retorica.

Max Marmotta