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Recensione

Vincitore del Roma Film Fest, il lungometraggio dell’esordiente Nicolo Donato (danese malgrado il nome) non punta a facili scandali, né si crogiola nel mostrare scene violente (comunque, fin troppo contenute rispetto a quanto ci si potrebbe aspettare).

E la trama si prestava particolarmente: epurato dall’esercito, il giovane Lars (Lindhardt) entra, per noia e spirito di contraddizione verso l’autoritaria madre (Hedelund), in un gruppo di neonazisti, capeggiato dall’ideologo Michael (Bro) – che a sua volta risponde al pezzo grosso Ebbe (Flygare) – e nel quale milita con convinzione Jimmy (Dencik), picchiatore di gay e pakistani con un fratello, Patrick (Holst), molto possessivo e fragile (fa parte della sua stessa banda ed è tossicodipendente).

Rimasti in un’isolata casetta in riva al mare non ancora completata (territorio di crescita comune assai congeniale ai racconti cinematografici), Lars e Jimmy, “allievo” e “maestro”, l’uno desideroso di conoscere, l’altro riluttante a impartire, inaspettatamente si innamorano.

Un sentimento che i due, considerate le rischiose conseguenze legate al loro ambiente, spietato e irragionevole, razzista e bestiale, proveranno a rinnegare.

Jimmy soprattutto. Sprovvisto di qualsiasi abbellimento narrativo, forte di un realismo crespo e coinvolgente, il film si avvale pure di uno sfumato ottimismo finale (in seguito a un risvolto abbastanza imprevedibile e punitivo, quasi a ristabilire gli equilibri universali).

Nel sottintendere scontati giudizi sull’aberrante pensiero post-hitleriano, affiora con decisione, inoltre, a mo’ di poetica della spontanea contraddizione umana, il tema della tolleranza come necessità di convivenza civile, che può svilupparsi quando ci si accosta, ci si dischiude al prossimo.

Un modo così naturale di esporre che pone in ascolto anche chi fa orecchie da mercante.

Max Marmotta