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Trama

In una sperduta cittadina della provincia statunitense, in Ohio, sorge una tetra industria di bambole.

Vi lavorano la rubiconda Martha, vicina alla quarantina, che vive con l’anziano padre non autosufficiente, e lo smilzo Kyle, poco più che ventenne, a casa con la madre disoccupata.

La loro amicizia, fatta di scarne chiacchierate in auto e al bar sulla via della fabbrica, viene impercettibilmente intaccata dall’assunzione, nella prospettiva di un’importante commessa, di una nuova impiegata, vagamente insofferente, la graziosa Rose, una figlioletta a carico, Jesse, e varie occupazioni passeggere alle spalle.

La sottile invadenza della neo-arrivata, che non si pone scrupoli a fare il bagno nelle case che accudisce (altra sua attività) o a chiedere spesso passaggi, diventa definitivamente (ma sommessamente) irritante per la cheta Martha quando, una volta accettato di accudire Jesse per una sera, scopre che Rose ha un appuntamento con Kyle.

Recensione

Facente parte di un progetto su una serie di lungometraggi a bassissimo budget, Bubble conferma l’eclettismo del suo autore Steven Soderbergh, in grado di alternare un prodotto commerciale alla Ocean’s Eleven, zeppo di divi e d’impianto tipicamente holllywoodiano, a una piccola e intensa storia d’ambientazione, nel qual caso perfino priva non già di grossi nomi, ma finanche di attori professionisti.

A riuscirgli benissimo, oltre appunto alla scelta di facce e corpi funzionali alla narrazione perfettamente a loro agio davanti alla videocamera (su tutti Debbie Doebereiner), è la descrizione di una provincia soporifera dove l’insoddisfazione cova e monta costantemente, in silenzio, pronta a manifestarsi nel più imprevedibile dei modi alla prima occasione o a restare sopita per sempre, corrodendo l’individuo soltanto dall’interno.

Il ridotto minutaggio (neanche un’ora e un quarto, con rapidi credits in testa e in coda) è un ulteriore punto a favore, specchio di una non indifferente capacità di sintesi che rimanda nuovamente alla povertà di risorse, gestita con estrema intelligenza e senza fronzoli.

In un contesto simile, nasce inoltre l’idea non proprio rivoluzionaria (se ne parlava da un po’ e prima o poi qualcuno avrebbe rotto gli indugi) della distribuzione simultanea sui vari canali di sfruttamento, in sala e in home video, inteso come dvd e pay per view, per far fronte all’incontenibile piaga della pirateria.

Chi sceglie di vedere in casa il film, in questo modo, paga la qualità. È una peculiarità che non sfigura nella secchezza generale dell’opera: ancora una volta, il massimo del rendimento con il minimo dello sforzo finanziario (all’uopo, e non tanto per la megalomania di cui lo sospettavamo agli esordi, il regista si occupa di fotografia e montaggio); ovvero, puntare ai contenuti senza trascurare una forma essenziale e genuina, talmente corrente che lo spettatore deve riconoscere fra i caratteri il proprio vicino di casa e perciò, storia vecchia, sentirsi facilmente coinvolto.

La “bolla” del titolo, che fa riferimento alla fragilità dei caratteri minati dai sacrifici di un’esistenza priva di reali prospettive – le migliorie sono forse possibili ma non si trova mai lo slancio anche solo per considerarle – è richiamata continuamente dalla rotondità della testa delle bambole (è significativo che in una zona così arida come quella nella quale si dipana la narrazione si fabbrichino prevalentemente “surrogati umani”, e non mancano i primi piani insistiti sulla realizzazione delle loro protesi) e della figura bonaria di Martha, in qualche modo ad esse analoga, per giunta, in alcune inquadrature finali, incorniciata all’altezza del volto da una sorta di occhio di bue, una luce tonda che sottolinea pure il confine di sapone che circonda ogni persona.

Un territorio che qualunque passante o una nuova collega possono invadere, bucare, distruggere senza fare rumore, una falsa e illusoria protezione che, appena violata, libera un’insopprimibile aggressività che non lascia traccia, testimoni e nemmeno memoria, talmente inaccettabile da essere rimossa nell’istante successivo alla sua manifestazione.

Sembra non esserci neppure l’amore fra i personaggi “desertici” tallonati da Soderbergh. Il marito non si addolora per la morte violenta dell’ex-moglie, la madre non si cura granché della propria bambina, l’anziano padre non appare scosso alla notizia dell’accusa di omicidio nei confronti della figlia, peraltro l’unica che si occupa di lui.

Parvenza residua di sentimento autentico è l’amicizia, quella tra Martha e Kyle, impossibilitata ad evolversi in qualcos’altro proprio per cause ambientali, come se non bastasse messa a repentaglio dall’“intrusa” Rose, spontaneamente cinica, aleatoriamente provocante, certamente scorretta, pronta ad appoggiarsi a corpo morto sul prossimo.

Nessuno è indispensabile: chi muore se ne va o è velocemente rimpiazzato, magari da chi cercava lavoro da molto tempo; non a caso la prima immagine riguarda uno scavo e l’ultima la copertura di un buco.

Una constatazione che è consapevolezza latente, che fa avvinghiare al proprio posticino al sole (quando c’è il sole) e, su un piano sociale, contribuisce allo sviluppo dell’egoismo, una di quelle piaghe comuni che si ha la tremenda tendenza a prendere sottogamba.

Max Marmotta