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Recensione

Premiata per la regia a Cannes e candidata come Miglior Film Straniero all’ultima edizione degli Oscar, ecco la più recente fatica di Nadine Labaki, attrice libanese che ha già realizzato i noti Caramel e E ora dove andiamo? e che adesso scrive (insieme a Michelle Keserwany e Jihad Hojeily, con la collaborazione di Georges Khabbaz e Khaled Mouzanar) e dirige (riservando per sé, come sua consuetudine, un ruolo, stavolta piccolo ma simbolico: l’avvocato difensore) questa parabola universale (potrebbe svolgersi ovunque, testimonia l’analogo dramma yemenita del 2014 La sposa bambina – Mi chiamo Nojoom, ho dieci anni e voglio il divorzio) calata, per scelta e appartenenza dell’autrice, tra le zone povere di Beirut, a dispetto del titolo “biblico” che richiama la città della Galilea frequentata da Gesù (dove avvennero alcuni miracoli), da cui discende il fuorviante sottotitolo italiano. 

Vi si raccontano le vicissitudini di Zain (il gracile e combattivo Al Rafeea, esordiente e bravissimo, nella finzione conserva il suo nome), circa 13 anni, unico figlio maschio di una prolifica e insensibile coppia (interpretata da Kawsar Al Haddad e Fadi Kamel Yousef). Quando madre e padre danno in moglie l’amata e giovanissima sorella Sahar (Haita ‘Cedra’ Izzam) a un adulto, lo sveglio ragazzino si ribella e fugge, vagando e ricostruendo una tenue dimensione familiare con la sconosciuta Rahil (Yordanos Shiferaw), immigrata a rischio di espulsione con un vivace bebè a carico, Yonas, tenuta in scacco dal subdolo Aspro (Alaa Chouchnieh), il personaggio maggiormente limato dallo script. Un dramma parallelo che dà comunque luogo a un precario equilibrio, basato su un esemplare sostegno reciproco purtroppo minato dalla cronica imperfezione del mondo, o meglio di chi lo abita. 

Esposta in un lungo flashback la fitta (dis)avventura del minuscolo e tenace protagonista, deciso a far causa agli scellerati genitori, oltre a rappresentare ogni infanzia negata del pianeta, non manca di dimostrare che i “colpevoli” non fanno altro che applicare con convinzione e noncuranza costumi e usanze retrograde, a detrimento di qualsiasi tutela dovuta ai minori. Zain è un eroe che non desidera esserlo, intriso di arte di arrangiarsi – trasmessagli, perlopiù indirettamente, dai parenti – e pronto a difendere se stesso (la coltellata che ne ha causato l’arresto alimenta una componente gialla sui generis) e chi gli sta a cuore. Una parte della critica ha storto il naso di fronte allo schematismo programmato della pellicola. Magari un po’ di maniera c’è davvero, ma di fronte all’urgenza del soggetto, alla necessità di (tornare a) parlarne, importa tanto? 

Max Marmotta