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Recensione

Gabriele Salvatores on the road again. Giunto al diciottesimo lungometraggio di finzione, il regista si serve in parte delle suggestioni che crearono lo zoccolo duro dei suoi ammiratori, quei viaggi formativi (fra amici, ma non solo) proposti nel fatidico passaggio tra gli ’80 e i ’90, vere e proprie fughe che permettevano ai suoi personaggi di confrontarsi e di evolversi. Un richiamo nostalgico che potrebbe risolversi in un effetto boomerang (anche perché i caratteri della sua più recente fatica rasentano lo stereotipo), prestando il fianco a liquidazioni sbrigative. Non sarebbe nemmeno un grosso problema, se non si notassero inoltre dei buchi nello sviluppo narrativo (indirizzi e numeri di telefono rintracciati con nonchalance, delfini misteriosamente desunti…). 

Fortunatamente il film può contare su ulteriori qualità. Anzitutto, attori convinti: Santamaria (finora mai diretto da Salvatores), Golino e Abatantuono (alla quarta e alla nona collaborazione con il cineasta, che traduce in immagini il copione di Umberto Contarello e Sara Mosetti tratto dal romanzo di Fulvio Ervas) animano rispettivamente uno scalcagnato cantante, Willy, detto il “Modugno della Dalmazia”, la donna che rimase incinta di costui (dopo dileguatosi), Elisa, e il marito di quest’ultima, Mario, tanto paziente come patrigno quanto insofferente nel suo mestiere di editore; e poi c’è l’inedito Giulio Pranno, nei panni – per l’appunto – del figlio che tutti loro hanno in comune, Vincent (dalla canzone di Don McLean, paratesto pregnante al pari di un’altra valorizzata dal soundtrack, Next to Me degli Imagine Dragons), sedicenne, autistico, vitale, in conflitto con una madre oggi benestante tuttavia visibilmente scoraggiata nel suo dovere di educare e proteggere il ragazzo nella sua difficile crescita (eloquente una delle sequenze iniziali, in mezzo a cavalli il cui controllo e la cui reiterata presenza sono rivelatori). Quando l’adolescente incontra lo sconosciuto padre, decide di seguirlo (all’inizio di nascosto) nella sua avventurosa tournée tra Slovenia e Croazia, senza documenti e con mezzi e ripari (tipo l’arrugginita specie di magic bus alla Into the Wild) di fortuna. Intanto, la genitrice (all’inconsapevole ricerca di una riaffermazione del suo ruolo, pure affettivo) e il consorte, preoccupati, si mettono sulle loro incerte tracce. Passando attraverso una complicata e astratta ricomposizione familiare, l’acqua, elemento di (ri)nascita, risolve ogni cosa. Ci sono riempitivi (per esempio, la parentesi sul manesco e depresso Dragan, interpretato da Daniel Vivian) e semplificazioni, comunque perdonabili. 

Max Marmotta