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Recensione

Non piacerà a tutti, lo strombazzato 9° lavoro (ma il conto è “pilotato”) di Quentin Tarantino. Questo perché l’acclamato regista statunitense affamato di cinema batte un percorso personale, rischiando di scontentare un discreto comparto di fans (che da lui esigono solo pulp) e fornendo argomenti finanche validi ai numerosi detrattori che lo ritengono un abile riciclatore della settima arte (in particolare nelle sue forme e propaggini più popolari), competente però privo d’inventiva. Tirando dritto (e, per fortuna, infischiandosene di entrambi), Tarantino oggi si permette di riscrivere, manipolare la storia, magari secondo l’“onnipotente” angolazione cinematografica che tradisce la sua passione sconfinata nei riguardi del mezzo, da fruire preferibilmente, anzi rigorosamente nella magica, eternante sala (vedi l’eloquente sequenza della proiezione di Missione compiuta stop. Bacioni Matt Helm). 

Nella fattispecie stavolta a due immaginari e paradigmatici caratteri armoniosamente antitetici – la star in declino Rick Dalton (DiCaprio), peraltro divisa (scissa?) tra serie tv e film di (cosiddetta) seconda categoria, e il suo stuntman (e factotum) sospettato di uxoricidio Cliff Booth (Pitt) – affianca/contrappone (in una vicenda parallela) la diva in ascesa realmente esistita (e barbaramente assassinata) Sharon Tate (qui la sempre splendida Robbie), moglie incinta di un ascendente Polanski. L’anno è il 1969, sorta di spartiacque tra due Hollywood, la classica e la new, dove si aggirano l’ombroso Steve McQueen (Damian Lewis) e l’acrobatico, sicuro di sé e addirittura “istruttivo” Bruce Lee (Mike Moh). Le citazioni si rincorrono (tipo il gesto della mitragliata dell’ex-Scarface Pacino, che fa un produttore), oltre ai collaudati protagonisti si scorgono ulteriori attori-feticcio di Quentin (Russell, Bell, Madsen, Dern al posto dello scomparso Reynolds), affiora della malinconia (per esempio per la presenza di Nicholas Hammond – Spider-Man della prima ora – nei panni del  cineasta Sam Wanamaker o di Luke Perry alla sua ultima apparizione) e si riflette sulla degenerazione che Manson (che ha il volto di Damon Herriman) inflisse alla cultura hippie, contro la quale l’autore non ha nulla (analogamente ai B-movies italiani d’epoca, evidentemente). Realtà e finzione si coniugano al meglio (sul ciglio della confusione), e lo testimonia pure il ruolo della piccola Julia Butters; la violenza ha un impatto diverso e quelli che sembrano tempi morti diventano prezioso arricchimento di un’opera che ha il respiro della saga (lo dice il titolo, con dubbia collocazione dei puntini…)  e che si guarda attorno senza stancarsi/ci. 

Max Marmotta