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Recensione

Nel raffazzonato panorama dell’horror contemporaneo, il francese Alexandre Aja è uno bravo. O meglio, lo sarebbe davvero e inequivocabilmente se, a scapito del suo non trascurabile talento visivo, non propendesse a privilegiare soggetti, anzi “contenitori” facili e ampiamente sperimentati. L’efferatezza di Alta tensione (2003) rischia di stemperarsi in qualche stereotipo di troppo, il dignitoso remake de Le colline hanno gli occhi (2006) è, per l’appunto, un remake (del Wes Craven più ispirato, per giunta), Riflessi di paura (2008) si esaurisce in uno spunto intrigante e Piranha 3D (2010) è uno dei più “fulgidi” esempi di lungometraggio con pochissime idee strettamente legato agli effett(acc)i stereoscopici (all’epoca dilaganti, oggi decisamente meno); e ci limitiamo ai lavori del regista più conosciuti in Italia. 

Anche questa cupa avventura, confinante con il cinema catastrofico (della peraltro sacrosanta serie: la natura presto ci punirà) e riguardante una giovane nuotatrice scoraggiata (l’alacre Kaya Scodelario della saga Maze Runner, recentemente trasfiguratasi per Ted Bundy – Fascino criminale) la quale durante un uragano, non avendo notizie del padre (Barry Pepper), suo motivatore fin dall’infanzia, accorre in suo aiuto, trovandolo bloccato e ferito nell’allagato scantinato di casa infestato da voraci alligatori, tradisce numerose parentele. Alligator, naturalmente, o il nostrano Il fiume del grande caimano, più una ventina di sottoprodotti, fino all’esagerato (ancorché simpatico) Lake Placid. Però il legame più forte sembra essere con Shark 3D (di nuovo!), trascurato (in ogni senso) thriller acquatico australiano del 2012: cambia il predatore marino (si parla evidentemente di squali), tuttavia la paradossale home invasion che muove la trama è della medesima risma (benché lì si tratti d’un supermercato, ma vabbè…). Insomma, l’originalità non abita in zona, il che non annulla la potenziale godibilità del film (realizzato in Serbia!), purché si abbassino le pretese e ci si convinca di assistere a un abbastanza decoroso divertissement di seconda categoria, valorizzato dall’esiguo numero di personaggi in campo. È opportuno ribadire che ci troviamo di fronte a un autore che sa comunque girare e conferire mordente – con le bestie in questione, è il caso di dirlo – a ciascuna scena. La situazione claustrofobica (e umida) fa il resto, fra momentanee (e frustrate) possibilità di salvezza, proliferazione dei pericoli e difficoltà a riprendere fiato. Non manca nemmeno il cagnetto domestico, piazzato per aumentare l’empatia dello spettatore. Espedienti gaglioffi, a loro modo efficaci. 

Max Marmotta